“100DM” un libro di Elisa Del Prete e Tommaso Bonaventura

Tommaso Bonaventura / Elisa Del Prete
“100 DM”

“Ho due vite e una sola biografia” diceva Thomas Oberlender, drammaturgo originario della Germania Est.
Le immagini e i testi raccolti in questo volume indagano su queste doppie vite a partire dai cento marchi di benvenuto – il cosiddetto Begrüßungsgeld – offerti dalla Repubblica Federale Tedesca a ogni abitante proveniente dall’Est la prima volta in visita nel paese: un regalo altamente simbolico nella memoria di ogni persona nata nella DDR.
Il fotografo Tommaso Bonaventura e la curatrice Elisa Del Prete affrontano la complessità e l’unicità del cambiamento avvenuto con la scomparsa di questo Paese in un racconto plurale, dove la storia è intimamente mescolata alla vita dei singoli.

Progetto grafico Lupo Burtscher / edito da Silvana Editoriale

Lo spazio artificiale

testo per la mostra di Angelo Bellobono "Linea Appennino 1201" / AlbumArte (Roma)

Ci siamo visti il 15 settembre, la sera tra il Cimone e il Maggiorasca, ormai alla fine dell’attraversamento appenninico iniziato all’inizio di agosto.
Ho scelto l’Albergo Corsini di Rocca Corneta, a metà strada tra Sestola, dove stava Angelo, e Gaggio Montano, dove stavo io.
Messa così sembrerebbe la premessa di un appuntamento galante, in realtà l’Albergo Corsini è il tipico ristorante con camere che si trova sulla strada provinciale della nostra montagna, dove gli autoctoni, anche detti “ingenui” o “nativi”, vanno a giocare a carte la sera.
Ci siamo trovati per cena, Angelo era appena sceso dal Cimone.
Al bancone era attaccato un cartello con su scritto in evidenziatore “POS rotto”. Ho pensato che avevo solo dieci euro e che avrei dovuto farmi offrire la cena. Mi sentivo impreparata a farmi testimone di un percorso tanto personale e al tempo stesso, prioritariamente, così tecnico.
La prima domanda che gli ho fatto è stata: Allora qual è il tuo monte preferito?
Mi ha risposto con un certo distacco che non ce n’era uno preferito ma che quello che certamente lo aveva impressionato di più era stato il Monte Meta, al confine tra Lazio, Abruzzo e Molise.
Mi ha detto: E’ un luogo in cui riesci a percepire come doveva essere prima dell’uomo, un posto ancora primitivo.

Nel mio lavoro (come curatrice mi occupo principalmente di seguire la fase di produzione di progetti artistici in spazi non convenzionali) di solito mi trovo ad avere a che fare con opere che hanno problemi di fattibilità e accessibilità, sia fisica che intellettuale, opere che attivano i cosiddetti “processi” che strabordano sia prima che dopo la creazione dell’opera stessa.
Angelo Bellobono l’ho conosciuto così. Sono rimasta affascinata dal suo progetto Atla(s)Now, un programma di residenza cui ha dato vita sulle montagne dell’Atlante in Marocco, mettendo insieme la sua esperienza sciistica col desiderio di creare una relazione duratura con queste vette attraverso le comunità che le abitano.

Il suo lavoro si compone di due aspetti, a mio parere complementari.
Il primo si nutre di relazioni, volte a comprendere, a mettersi in dialogo con l’alterità da cui necessariamente proveniamo, a riflettere sulle radici comuni, a testare l’impatto dell’arte su contesti sensibili attraverso la creazione di microsistemi “dare-avere” che infine si autoregolano.
Il secondo confluisce in studio, nella pittura, oggetto specifico di questa mostra.

Non scriverò questa volta del “processo”, ovvero del primo aspetto, perchè mi sembrerebbe di firmare la giustificazione a un quadro. Vorrei invece parlare della pittura, imbrigliare me stessa nella matassa complessa del dipingere, perchè credo che questo abbia a che fare con la pittura di Angelo, o almeno è dove mi ha condotto, portandomi di fronte a opere non solo fattibili e accessibili quali sono i dipinti, ma anche profondamente personali, al punto da non necessitare quasi di alcuna disamina a riguardo.

Già, perchè di fronte a un dipinto c’è poco da chiosare. Deve essere o non essere, emozionare o meno, comunicarci qualcosa oppure no, portarci dentro a un discorso che magari gli è anche estraneo, ma che necessariamente nasce da lì, non da postille esterne.
Quando Angelo mi ha invitato in studio, a Roma, nel quartiere di Montesacro, una volta entrata ho dovuto violentamente tirare il freno a mano: nessuna premessa, nessuno studio di fattibilità, nessuna parafrasi, il quadro e basta, e l’invito a starci di fronte.
Le sue tele hanno spesso dimensioni che si ripetono, 2x2m, 1x1m, tutte maneggiabili allargando le braccia, poi ci sono quadri più piccoli e molto piccoli, e superfici diverse, plastiche, libri, riviste (d’arte) su cui interviene per interrogare lo spazio pittorico. Per dipingere Angelo usa qualsiasi strumento, oltre i pennelli, la mani, spatole o pezzetti di plastica. Un quadro può nascere in un paio di giorni come restare “fermo” per mesi. Trovarsi di fronte a un dipinto passa per me preliminariamente per questo tipo di indagini. La pittura, paradossalmente, non è quasi mai immediata, si svela poco alla volta e sebbene venga facilmente fatta coincidere con l’immagine dipinta, fuori da essa in realtà c’è tutto il resto.
Quella di Angelo Bellobono, a mio parere, è un’indagine sul proprio fare pittura principalmente oltre l’immagine. Dipingere sembra offrirgli la possibilità di entrare dentro la pittura stessa per prenderne poi le distanze e porsi in osservazione, diventando spettatore.

Percorrere le vertebre più alte della spina appenninica, ciò che ha dato il via alla serie pittorica Linea Appennino 1201, coincide, allargando lo sguardo, con la presa di possesso dell’Appennino stesso, non con una serie di salite e discese, bensì con un’esperienza unica, archetipica, di appropriazione di un luogo originario e inafferrabile.
Quando Angelo mi ha mostrato il disegno con la linea del percorso che avrebbe fatto, prima di qualsiasi quadro, prima di qualsiasi foto, prima di qualsiasi fatica, io ho visto l’Appennino come catena montuosa a me ben nota ma non riconducibile a un’unica immagine.
Il gesto di appropriazione delle otto terre appenniniche, di colore e consistenza diversi, è coinciso con un atto di conquista, con l’andare a prendersi e scegliersi i mezzi del proprio lavoro (l’arte) alla loro origine, col ricondurre il paesaggio all’uomo e col ri-equilibrare la relazione tra natura e cultura, primitivo e biografico, tra colui che per primo ha inciso (intervendo sul paesaggio) e chi oggi ancora dipinge.
Tornando quindi alla pittura a me pare vi confluisca un atto di restituzione di un attraversamento del paesaggio che non nasce da un’attitudine romantica nè tanto meno en plein air, ma che investiga l’atto stesso del dipingere, e che in una tela come Monte Appennino l’atto di mescolarvi tutte le terre per farne un’unica materia pittorica si specchi prima di tutto il fare pittorico.

Angelo è un maestro di sci e fin da bambino, mi raccontava, giocava col paesaggio, risalendo letti di fiumi, scovando gli animali nelle loro tane, girovagando per boschi alla ricerca di indizi. Eppure Angelo è originario di Nettuno, sul litorale laziale, ed è quando rimette i piedi nella sabbia calda che si sente a casa, come tutti i marittimi. La montagna è un territorio che invece ha imparato a conoscere, a fare proprio, a leggere, di cui ora sa i codici grazie a un percorso di apprendimento che è passato per l’esperienza fisica. L’atto di possedere/habere la montagna è allora un gesto simbolico per abitare un paesaggio che ha imparato e fatto suo a proprio modo, così come ha imparato a dipingere, ovvero a creare una relazione vitale tra se stesso e la pittura.
Lo spazio della tela è uno spazio artificiale privilegiato, uno spazio vuoto (quali altri spazi vuoti ci capita di incontrare?), su cui vedere prender forma un’intenzione.
Ciò che amo dei dipinti è la loro sintesi furba e forzata dentro a uno spazio circoscritto, la loro capacità di dar vita a un luogo che prima non esisteva, un luogo unico e autonomo, che resta così com’è e può essere astratto dalla condizione in cui è inserito.
Angelo parla del dipingere come di un atto installativo, laddove la superficie pittorica è lo spazio in cui si orchestrano i segni e prende forma il dipinto. Ed è vero, il quadro, per sua natura, altro non è che un’installazione, un nuovo spazio dove ogni segno concorre all’impianto generale.
Inteso in modo così fisico diventa anch’esso un attraversamento.
Non è un caso quindi che la serie di dipinti di Linea Appennino 1201 nasca dal desiderio fisico di toccare la dorsale appenninica, dall’intenzionalità del corpo, dal suo porsi a disposizione e in relazione al mondo, da quel primo aspetto del suo lavoro che descrivevo sopra.
La pittura di Angelo Bellobono muove da un’esperienza per convergere poi in un’immagine che prende forma sulla tela a partire dall’esperienza stessa, ma non si tratta mai di riprodurre un paesaggio, bensì di confidare a quello spazio il “proprio” paesaggio, quasi per paura che possa scomparire.

Una volta entrata in studio mi ha detto Sai, ho sognato che mi veniva cancellato il paesaggio da davanti, che mi veniva graffiato via.

L’immagine è come se alla fine restasse in potenza, al di qua di una possibile narrazione.
Dipingere o svuotare lo zaino – come dice lui – consiste allora, forse, nel tentativo di non vedersi cancellare via il proprio vedere dall’oggettività dello sguardo, quando impara a mettere in ordine ogni cosa, ogni segno, nella costruzione di un’immagine precisa, dal desiderio di preservare quello spazio in cui restare radicati al proprio vedere ingenuo e nativo, creandosi nella pittura lo spazio artificiale per un riflettersi originario.

William Kentridge

Elisa Del Prete, William Kentridge, Starter / doppiozero, 2016

Una monografia completa di uno dei maggiori artisti contemporanei. Un percorso biografico e tematico ricco di materiali anche frutto di interviste inedite e di illustrazioni che ripercorrono tutto il complesso tragitto dell’artista sudafricano dagli esordi teatrali alle grandi realizzazioni e installazioni, come quelle in corso attualmente a Roma e Milano.

Artista di fama internazionale William Kentridge (Johannesburg, 1955) è ormai riconosciuto dentro e fuori dal circuito artistico in quanto testimone della condizione di segregazione vissuta dal Sudafrica durante l’Apartheid, in cui l’artista cresce.
Le sue animazioni in stop motion nascono da un processo unico che parte del disegno in bianco e nero, a carboncino o pastello, e prosegue in un’ossessiva cancellazione e ricostruzione che delinea un mondo fatto di ombre, slittamenti, metamorfosi, fraintendimenti continui che sono metafora dell’indefinibile complessità del contesto geo-politico in cui vive, come del mondo in generale.
Ma se è vero che Kentridge è portavoce di un cambiamento epocale della storia, è anche vero che tutto il suo lavoro non si risolve mai in una presa di posizione univoca ma anzi si districa nella continua messa in discussione di “identità” e “verità”. Ed è per questo che il suo lavoro continua ancora ad affascinare, a mantenere la forza di continuare a porre domande.
Se i temi che porta nel suo lavoro gridano un’urgenza collettiva, il suo è in realtà un percorso a ritroso di soggettivazione, un cammino lento e ancora in atto dal fuori al dentro, la messa in scena di una memoria prima di tutto personale e dei modi in cui essa si deposita e dissolve, un incontrare il mondo a metà strada per farlo a pezzi e ricomporlo.
Il suo lavoro è un esercizio di consapevolezza e un ammonimento dello sguardo, ma al tempo stesso è una pratica quotidiana in studio, un giocare al mettere in ordine la vita con la consapevolezza taciuta che non ci saranno vincitori.

Vorrei ma non possiamo, dunque dobbiamo.

testo in catalogo per la mostra di Linda Rigotti “Impressione Verde.Costruzioni aperte in equilibrio dinamico.”

Vorrei ma non possiamo, dunque dobbiamo.

Vige un senso di forzatura nella relazione tra uomo e ambiente.
Un tentativo costante, da parte dell’uomo, di gestione, costruzione, occupazione.
Non penso all’abuso di un territorio, alla violazione della Terra, all’effetto serra…penso alla stonatura originaria tra l’uomo e un ambiente che viene prima di lui col quale ha imparato a relazionarsi, di cui sa sfruttare le risorse, amare le bellezze, pur restando sordo a un grado di reale comprensione, incapace a una relazione spontanea, non per pigrizia o arroganza, bensì per assenza di una lingua comune. Tra uomo e ambiente vige, a me pare, un’insanabile incomprensione.
Lasciandoci alle spalle la città, dove ogni dettaglio, ogni scorcio, ogni orizzonte è disegnato dall’uomo, e scendendo verso il mare o salendo in montagna, la manomissione diventa più evidente perchè non riesce ad essere mai completamente efficace. Il respingersi delle due forze si manifesta con più clamore. Interventi e azioni umane devono affidarsi alla ripetizione, alla riparazione, all’adeguamento.
Provate a mettere in ordine una montagna. Provate a dare un ordine alla terra, all’erba, a un prato, agli alberi, o addirittura alla roccia.
Provate a mettere in ordine il mare. Provate a fermare il mutare dell’aria.
Poi, laddove ci siete riusciti, calcolate quanto la situazione di ordine permane.

Vorrei essere semplicemente una roccia. Questo penso sia un pensiero che Linda fa spesso: però – continua – non possiamo venir meno al nostro essere umani, dunque dobbiamo sforzarci di stare di fronte a ciò che questo significa in un processo costante di ordinamento.
In questo, a me pare, si racchiude lo sforzo che costringe i lavori di Linda Rigotti.
Sospesi tra processo e forma si costituiscono nella forma del processo. E il processo si compone sempre della relazione tra due elementi: lei e la sua esperienza più diretta dei luoghi nel particolare, l’uomo e lo sviluppo del suo sapere in generale.
In mezzo scorre la vita, il movimento, l’azione, la trasformazione, non permanenti.
In mezzo tra lei e il luogo, come tra l’uomo e l’ambiente, scorre il disordine della natura contro l’incessante produzione umana di ordine.
Originaria del Trentino ma radicata a Bologna vive, per scelta, la condizione privilegiata di non appartenenza che garantisce la possibilità di osservazione a distanza del luogo delle origini oltre che di quello d’abitazione. E, ancora, la sua scelta l’ha portata ad abbandonare un luogo di natura in favore di un luogo di società. Sono, credo, premesse significative.
Priva di uno spazio fisico di raccolta si serve della fotografia, del video, del disegno a matita, di ciò che la cattura in ogni sito che attraversa. Non ha necessità di stare, bensì desiderio di non stare. E questo detta il procedere del suo lavoro in un tempo e uno spazio di relazione sempre variabile.

Il muro, in questa sua ricerca, è diventato uno dei principali attributi, l’azione stessa del costruirlo in questa mostra Impressione verde; costruzioni aperte in equilibrio dinamico, come nell’azione Help me to build the green wall del 2015 (?), e, ancora, lo starci di fronte nei murali di Woodwose (data?) o in quelli che ha realizzato nella scuola Nome dove insegna.
Il muro è un segno lasciato nell’ambiente, è manifestazione di presenza e nel suo stare nello spazio e sopravvivere nel tempo diventa dimensione essenziale e originaria dell’uomo.
Il muro è il segno primo della volontà e capacità umana di dar forma e ordine al ritmo disordinato delle forze naturali, è la struttura per eccellenza, dove ogni singolo elemento è indispensabile al tutto nel completarsi con gli altri. Il muro è il porsi dell’uomo di fronte all’aria, la terra, l’acqua e il fuoco, per giungere a una forma in cui questi elementi, che vivono invece di costante mutazione, vengano ordinati. Il muro è esperienza umana delle origini: dove ha imparato l’uomo se non dalla natura stessa ad innalzare muri, dove ha capito che muri potevano proteggerlo, ripararlo, difenderlo? Aristotele diceva che le arti architettoniche sono “origini” proprio nel loro produrre una dimensione originaria…
Il costruire un muro è dunque una produzione originaria e una forte azione simbolica.
Mettendo per un attimo da parte pregiudizi e contaminazioni linguistiche che ne sporcano oggi il gesto, l’atto del costruire è atto di potenza, azione elementare fondante l’impero dell’uomo, opera pre-linguistica. Chi sa fare un muro è salvo.
Ecco che imparare a costruirlo, acquisire il sapere o i saperi che ne permettono l’edificazione è un atto di salvezza, non solo personale ma universale. Edificare un muro è il primo gesto dell’uomo di affermazione nell’ambiente, è l’avvio di un processo di conoscenza ed esperienza del mondo.
L’uomo ha un suo posto e il muro ne è un segno, il primo segno del suo sapere e una dichiarazione di presenza in atto.

Divenuta scultura, segno significante nello spazio, il muro non è però pura forma ma è l’esito di un processo di apprendimento che l’artista sviluppa assieme a chi, portatore del mestiere, può offrirle un percorso di conoscenza, Relazione xxxxxx, Relazione yyyyy, Relazione zzzzz.
Allo stesso modo il ciclo di video Mentre sto a questo lago (2012), che pur va a confezionare un racconto mitico di un luogo indefinito (si tratta di una serie di azioni sul lago Molveno, ma potrebbe essere altrove), non si offre come esperienza diretta ma filtrata da un gruppo di ragazze che abitano il luogo da straniere. E, ancora, il gesto di Ciao, ti presento loro (2015) si serve degli occhi di altre persone, fino anche al vero e proprio racconto orale di Il loro amore era una montagna che conosceva tutta la storia di lei e di lui, e le morti, le vite e le nascite. Il ritorno ripercorrendo le ragioni che hanno mosso ciascun lavoro e nel complesso l’intera ricerca (2015), opera che arriva a non esistere senza l’interazione con gli ascoltatori.
La narrazione insita già nei titoli dei lavori è segno di una chiamata all’ascolto, di un’apertura oltre il sé. L’uso che fa di fotografia e disegno (vicini il più possibile al reale), poi, è assolutamente soggettivo, introspettivo, finanche narcisistico nel desiderio che l’artista esprime di incontrare se stessa e di porsi di fronte agli altri. Utile e desiderata la relazione funge da specchio per collocare il sé ma al tempo stesso per astrarlo dalla sua unicità: io non sono l’altro ma nell’altro c’è traccia di me.
Nel lavoro i due elementi di partenza, uomo e ambiente, artista e luogo si incontrano sostanziandosi in una presenza che non è mai però propriamente opera perché si compone anche di un tempo e uno spazio lì non contenuti e di un flusso di relazioni precedentemente intercorso e prossimamente in circolazione che mette in atto indefinibili varianti. Tra un uomo e un altro c’è un mondo intero come tra quello stesso uomo e il mondo c’è un altro mondo: Jean -Luc Nancy scrive che l’opera è il tocco plurale dell’origine singolare. (1)
Posto che… – si dice in Fisica -…le variabili saranno poi imprecisate.
Nelle azioni cui assistiamo i presupposti vengono quasi sempre definiti tramite due modalità contrapposte, la premeditazione e il disinteresse per l’esito, o, potremmo dire, il calcolo e il gioco, dove l’uno detta le regole dell’altro nella consapevolezza che proprio il fattore ludico, il disinteresse, la non funzionalità, può metterle in discussione. I processi non giungono mai a un’opera autonoma, in un percorso che, anzi, a partire dall’esperienza biografica mira alla messa in comune, alla trasformazione dell’opera in un atto plurale dove chi guarda e chi partecipa attiva un sistema di relazioni e possibilità non calcolabili.
A dispetto dell’apparenza niente è in realtà fermo perché tutto è in trasformazione. L’opera è quel luogo in cui la concentrazione di relazioni tra chi è presente e chi è passato, tra ciò che è e ciò che è stata, genera continui scambi e alterazioni di un ordine solo istantaneo.
Quando è riuscita – scrive Nicolas Bourriaud – un’opera mira sempre al di là della sua semplice presenza nello spazio; si apre al dialogo, alla discussione, a quella forma di negoziazione interumana che Marcel Duchamp chiamava “coefficiente d’arte”, un processo temporale che si gioca qui e ora. (2)
Nell’opera si attiva dunque uno spazio di conoscenza che ha origine proprio da quel vincolo inderogabile tra uomo e ambiente. L’opera è quello spazio in cui la relazione si fa manifesta e lo stare dell’uomo si fa pro-duzione nella presenza, prassi, attività libera e voluta. (3)

 

1__Nancy J-L., Essere singolare plurale, Einaudi, Torino, 2010, p. 23.
2__Bourriaud N., Estetica relazionale, Postmedia, Milano, 2010, p. 43
3__Agamben G., L’uomo senza contenuto, Quodlibet, Macerata, 1994, p. 153.

La serietà con cui ci stanno di fronte così esattamente

testo per la mostra "Pssst Pssst" di Chiara Camoni, Cappella Tremlett – Bologna

Quel mondo, il mondo animale, ci rimane distante.
Potremmo vivere la vita intera senza incontrarlo, se volessimo.
Il mondo degli animali è oggi qualcosa che non penetriamo completamente, che non conosciamo più, una delle poche cose che ancora rimane da guardare e basta. Qualcosa che convive con noi quasi nostro malgrado, in parallelo, sotto il nostro sguardo stupito. Animali che ripetono con costanza e rigore i loro comportamenti, infastiditi talvolta dai nostri, ma senza mirare, pare, ad alcuna evoluzione, quanto meno immediata. Ma com’è possibile che oggi possano sopravvivere, così, sempre uguali a se stessi, quasi identici a com’erano?

Sì certo, gli animali domestici, quelli che prendiamo in braccio, quelli che crediamo di conoscere come fossero i nostri migliori amici, ecco il grado di avvicinamento antropomorfico che abbiamo oggi con l’animale.
Lo amiamo perché ci troviamo un margine di somiglianza, perché ci richiede un passo indietro, il regredire a un tocco, a uno sguardo, a un battito di palpebre, a un movimento della bocca o di un braccio…ci richiede un passo prima della parola.

Nessun animale conferma l’uomo, né in positivo né in negativo. L’animale può lasciarsi uccidere e mangiare, di modo che la sua energia vada a sommarsi a quella che il cacciatore già possiede. L’animale può lasciarsi addomesticare, fornendo cibo e lavoro al contadino. Ma sempre la mancanza di un linguaggio comune, il silenzio dell’animale, garantisce la sua distanza, la sua diversità, la sua esclusione dall’uomo.
(J. Berger, Perchè guardiamo gli animali)

Gli animali non parlano. E grazie a Dio.
Ecco allora forse perchè Chiara Camoni ha pensato a loro quando le è stato chiesto di fare un libro senza parole, un libro per bambini che lasciasse spazio alla loro immaginazione senza “dire” niente.

Il libro di Chiara è un libro fuori moda, in bianco e nero, del tutto inadatto ai bambini, pare.
Eppure quei disegni ti si appiccicano addosso e l’artista stessa dice – ho deciso di riprodurre disegni così realisti quando ho visto che i bambini rimanevano ammaliati dai volumi di riproduzioni ottocentesche e li preferivano ai libri più colorati e fantasiosi di illustratori moderni -. Eh sì, viene da rispondere, perchè li mostrano per quello che sono, per come non li conosciamo.

L’animale, se ci pensiamo, è la prima figura che l’uomo rappresenta. E’ il primo disegno. E il disegno è quella forma artistica, quello strumento primo e diretto che serve a conoscere il mondo. Tramite il disegno l’artista afferra ciò che non conosce, lo fa suo, è come se lo mettesse a fuoco, parte dopo parte.

Disegnare è possedere – diceva Amedeo Modigliani – un atto di conoscenza e di possesso.

Chiara è come se cogliesse l’occasione per disegnare, quasi come un bambino che vuole riprodurre qualcosa che lo ha catturato del mondo reale, che vuole riuscire a renderlo esattamente com’è, che vuole farlo bene, che rinuncia alla fantasia perchè trova più interessante restare nella contemplazione, nel gesto, nel segno da cui prenderà forma la figura.

Scomparsi dalla nostra vita, messi ai margini degli spazi che ci siamo ricavati per vivere, gli animali ritornano sui libri, nei documentari in televisione, nei cartoni animati…a dovuta distanza. Da Esopo a Disney gli animali diventano portatori di discorsi, soggetti della satira ottocentesca che denuncia la maleducazione umana, ridicoli alter ego o invincibili supereroi del mondo umano.

Eppure gli animali che ci presentano le tavole di questo prezioso libercolo scultoreo, sospesi non si sa dove, giocando o semplicemente stando come rapiti da altrove, vicini tra loro quando mai, abbiamo imparato, lo sarebbero stati, sconcertano la serietà con cui ci stanno di fronte così esattamente. Il titolo stesso, Pssst Pssst, pur nella sua risibile inconsistenza, dà alla storia un senso di realtà mettendo a fuoco con precisione il passaggio che è in atto, da un orecchio a un altro. Ma non siamo del tutto convinti che stiano parlando, tra loro sta accadendo qualcosa che non ci è del tutto chiaro, qualcosa che ci rimane comunque distante, nonostante il nostro tentativo di penetrarlo, nonostante il desiderio di dar loro la parola, questi animali non parlano, bisbigliano…Forse.

Elisa Del PreteQuel mondo, il mondo animale, ci rimane distante.
Potremmo vivere la vita intera senza incontrarlo, se volessimo.
Il mondo degli animali è oggi qualcosa che non penetriamo completamente, che non conosciamo più, una delle poche cose che ancora rimane da guardare e basta. Qualcosa che convive con noi quasi nostro malgrado, in parallelo, sotto il nostro sguardo stupito. Animali che ripetono con costanza e rigore i loro comportamenti, infastiditi talvolta dai nostri, ma senza mirare, pare, ad alcuna evoluzione, quanto meno immediata. Ma com’è possibile che oggi possano sopravvivere, così, sempre uguali a se stessi, quasi identici a com’erano?

Sì certo, gli animali domestici, quelli che prendiamo in braccio, quelli che crediamo di conoscere come fossero i nostri migliori amici, ecco il grado di avvicinamento antropomorfico che abbiamo oggi con l’animale.
Lo amiamo perché ci troviamo un margine di somiglianza, perché ci richiede un passo indietro, il regredire a un tocco, a uno sguardo, a un battito di palpebre, a un movimento della bocca o di un braccio…ci richiede un passo prima della parola.

Nessun animale conferma l’uomo, né in positivo né in negativo. L’animale può lasciarsi uccidere e mangiare, di modo che la sua energia vada a sommarsi a quella che il cacciatore già possiede. L’animale può lasciarsi addomesticare, fornendo cibo e lavoro al contadino. Ma sempre la mancanza di un linguaggio comune, il silenzio dell’animale, garantisce la sua distanza, la sua diversità, la sua esclusione dall’uomo.
(J. Berger, Perchè guardiamo gli animali)

Gli animali non parlano. E grazie a Dio.
Ecco allora forse perchè Chiara Camoni ha pensato a loro quando le è stato chiesto di fare un libro senza parole, un libro per bambini che lasciasse spazio alla loro immaginazione senza “dire” niente.

Il libro di Chiara è un libro fuori moda, in bianco e nero, del tutto inadatto ai bambini, pare.
Eppure quei disegni ti si appiccicano addosso e l’artista stessa dice – ho deciso di riprodurre disegni così realisti quando ho visto che i bambini rimanevano ammaliati dai volumi di riproduzioni ottocentesche e li preferivano ai libri più colorati e fantasiosi di illustratori moderni -. Eh sì, viene da rispondere, perchè li mostrano per quello che sono, per come non li conosciamo.

L’animale, se ci pensiamo, è la prima figura che l’uomo rappresenta. E’ il primo disegno. E il disegno è quella forma artistica, quello strumento primo e diretto che serve a conoscere il mondo. Tramite il disegno l’artista afferra ciò che non conosce, lo fa suo, è come se lo mettesse a fuoco, parte dopo parte.

Disegnare è possedere – diceva Amedeo Modigliani – un atto di conoscenza e di possesso.

Chiara è come se cogliesse l’occasione per disegnare, quasi come un bambino che vuole riprodurre qualcosa che lo ha catturato del mondo reale, che vuole riuscire a renderlo esattamente com’è, che vuole farlo bene, che rinuncia alla fantasia perchè trova più interessante restare nella contemplazione, nel gesto, nel segno da cui prenderà forma la figura.

Scomparsi dalla nostra vita, messi ai margini degli spazi che ci siamo ricavati per vivere, gli animali ritornano sui libri, nei documentari in televisione, nei cartoni animati…a dovuta distanza. Da Esopo a Disney gli animali diventano portatori di discorsi, soggetti della satira ottocentesca che denuncia la maleducazione umana, ridicoli alter ego o invincibili supereroi del mondo umano.

Eppure gli animali che ci presentano le tavole di questo prezioso libercolo scultoreo, sospesi non si sa dove, giocando o semplicemente stando come rapiti da altrove, vicini tra loro quando mai, abbiamo imparato, lo sarebbero stati, sconcertano la serietà con cui ci stanno di fronte così esattamente. Il titolo stesso, Pssst Pssst, pur nella sua risibile inconsistenza, dà alla storia un senso di realtà mettendo a fuoco con precisione il passaggio che è in atto, da un orecchio a un altro. Ma non siamo del tutto convinti che stiano parlando, tra loro sta accadendo qualcosa che non ci è del tutto chiaro, qualcosa che ci rimane comunque distante, nonostante il nostro tentativo di penetrarlo, nonostante il desiderio di dar loro la parola, questi animali non parlano, bisbigliano…Forse.

DOPO, DOMANI, un progetto d’arte utopica sul lavoro e l’abitare di oggi

su "ON", un progetto di arte contemporanea che invita artisti internazionali a realizzare opere e azioni in luoghi pubblici della città di Bologna

Mi è capitato, come forse anche ad alcuni di voi, di partecipare a bandi per incarichi di lavoro all’estero in strutture pubbliche (almeno in parte), e di scoprirmi davvero poco preparata a fornire un quadro sul mio lavoro passato che riuscisse a restituire da una lato quelle che oggi vengono dette le skills (ovvero le competenze acquisite nel corso della carriera professionale), dall’altro a mostrare come tali abilità potessero offrire un reale potenziale di sviluppo per chi avrebbe dovuto scegliermi.

Lavoro come curatore d’arte contemporanea e so che non è tra i lavori più comuni, ma credo che buona parte della mia generazione, io ho 37 anni, si trovi a vivere questa situazione.

Non si tratta di precariato o almeno non solo, si tratta a mio parere di visione, di proiezione, e perchè no, di desiderio. Aspetti che spesso sono fuori dalla nostra portata e dalla nostra preoccupazione, per lo più rivolta alla risoluzione di un presente. Si tratta di capire che e come quel che stai facendo può diventare bagaglio fondante il tuo futuro. Di capire, e dunque prima di tutto di cercare, il punto in cui ci troviamo lungo un percorso che ha un prima e avrà un dopo, e soprattutto segue un flusso che non è indipendente dal resto del mondo né dal resto degli esseri umani e viventi in genere.

D’altra parte, l’informazione, la pubblicità, i media ci mettono sempre di fronte ad una proiezione sul futuro…i futuro delle terra, delle risorse, la vita su altri pianeti, la scienza e la tecnologia, la vita virtuale, la fine della crisi…e il futuro è sempre messo in relazione al passato nel tentativo di costruire un discorso storico.

Viviamo all’interno di una contraddizione faticosa…ci viene chiesto di proiettarci sul futuro ma senza che l’oggi fornisca gli strumenti per pensarsi domani.

Così che quando mi sono trovata di fronte al titolo DOPO, DOMANI, quello della sesta edizione di ON, è stato un richiamo immediato, l’attivazione di una curiosità, di una domanda che mi ero scordata, il concentrarsi in due parole di due tempi vicini e lontani, il dopo dell’oggi ma anche di un futuro imprecisato, il domani come futuro auspicabile ma al tempo stesso immediata e circoscritta temporalità.

ON è un progetto avviato nel 2007 da Martina Angelotti e Anna De Manincor che investiga la sfera pubblica attraverso l’invito ad artisti internazionali a realizzare opere e azioni in relazione alla città di Bologna a stretto contatto con immaginari reali ma anche visionari e utopici (onpublic.it). Quest’anno sono stati realizzati due interventi artistici sul tema del tempo futuro, appunto, legato a quello dell’abitare e quello del lavoro: l’intervento scultoreo Monowe dell’artista torinese Ludovica Carbotta e una due giorni di discussione attorno al tema del lavoro presso la sede istituzionale di Palazzo D’Accursio del Comune, dove l’artista italo-libanese Adelita Husni Bey ha organizzato quattro tavoli tematici, 4 Atti sul Lavoro, così come si posso riascoltare su https://www.youtube.com/watch?v=uTo2e9i9mg4, invitando esperti a dialogare con i visitatori e con 20 disoccupati appositamente reclutati tramite una chiamata pubblica (il filosofo Federico Campagna ha coordinato il tavolo “Cos’è il lavoro? Il lavoro come ideologia”; il sociologo Federico Chicchi quello dedicato a “Chi lavora? Automazione e lavoro”; Cristina Morini, che si occupa della condizione lavorativa delle donne, ha guidato la discussione “Dove si lavora? Lavoro domestico e coworking”; infine Federico Martelloni, professore associato in diritto del lavoro all’Università di Bologna, quella su “Quale tutela del lavoro? Lavoro e diritto”).

Entrambi proiettati verso una dimensione utopica del futuro, i due progetti sono in realtà un invito a porci domande sul presente.

Quest’ultimo, in particolare, che è ancora in corso nella sua fase di post-produzione ovvero nella rielaborazione dei dati raccolti, ha ben poco di artistico in termini formali condensando invece la sua essenza metaforica nel processo che mette in atto. Un processo cognitivo, di attivazione di pensiero, verso se stessi ma anche verso gli altri, di visioni sulla società locale e globale.

Durante le due giornate dei 4 Atti (la prima live, la seconda in differita audio e video) il pubblico era invitato a compilare un questionario per “visualizzare un futuro prossimo del lavoro”, andandosi a cercare nel 2040, andando a cercare nel proprio immaginario la propria condizione tra più di vent’anni, un tempo lungo ma poi non così lontano. “Il questionario è composto da due parti – si legge sulla copertina -, una riguardante il presente e una seconda, più estesa, che chiede di situarsi nel futuro.”

Tali questionari, ad oggi qualche centinaia, sono stati raccolti per essere rielaborati in chiave statistica e messi a disposizione di tutti online (su onpublic.it, e altri portali come su testate giornalistiche nazionali su cui usciranno non appena sarà terminata la fase di rielaborazione) per darci un quadro delle condizioni future del nostro lavoro. Un quadro improbabile, ovviamente, che però forse ci porta altrove.

Domande come Quanto è importante la carriera nella tua vita del 2040? oppure Nel 2040 quanto si differenzia il tempo del lavoro dal tempo del non lavoro nella tua giornata? …o ancora Esiste (nel 2040) il Ministero del Lavoro? Quali altri tipi di sostegno oltre al lavoro ti permettono di sopravvivere nel 2040? non si distanziano tanto da quelle delle application internazionali di cui dicevo all’inizio, non ovviamente nei contenuti, quanto nell’approccio che richiedono. Entrambi i questionari sono un invito spietato e talvolta crudele a interrogarci sulla nostra condizione. Altrochè futuro! Sì certo, possiamo divertirci a rispondere alla domanda su “come manifesti nel 2040 la tua insoddisfazione verso la tua condizione di lavoro” con “compio atti terroristici” o “divento un eroe” o “mi suicido” ma subito ci viene da pensare, e oggi? È poi così diverso? Riesco a manifestare questa insoddisfazione o subisco il mio lavoro senza interrogarmi per niente? O ancora quando ti viene chiesto se il tempo del lavoro nel 2040 si differenzierà da quello del non lavoro, qual è il desiderio e quale l’attesa?

Nel compilarlo mi sono sentita un po’ sola. Cosa avranno scritto gli altri – mi sono chiesta? Come la intendono loro, qui accanto a me? Quelli che lavorano con me e quelli che hanno scelto tutt’altro? Mi sono venute in mente le parole di Zygmunt Bauman quando parla della contraddizione della condizione attuale individualistica dove il singolo, privato ormai della comunità, si trova però a dover risolvere problemi causati e concernenti la società intera. Pur non essendo stata presente, immagino che i 4 tavoli, così come li ho ascoltati, oltre che un’occasione di approfondimento tecnico e teorico su temi di cui i lavoratori conoscono spesso solo l’aspetto pratico, siano stati prima di tutto un atto sociale, un’occasione quanto meno di condivisione di questioni che riguardano la collettività.

È vero che tendiamo a vivere sempre più isolati, chiusi nelle necessità di risolvere ognuno il proprio quotidiano, ed è anche vero che questo grado di individualismo è l’ovvia conseguenza di uno stato di urgenza in cui ci siamo trovati negli ultimi anni, ma è anche vero che ci piace stare nel nostro piccolo sistema di relazioni (o non relazioni) inconsapevoli e felicemente ignari di ciò che ci circonda, o anche chiuderci dentro un mondo all’avanguardia nella nuova tecnologia, al riparo da ogni sforzo collettivo. Un duplice lato della stessa medaglia, così come ce la presenta anche Ludovica Carbotta in Monowe, di cui si può ascoltare una traccia audio su https://soundcloud.com/on-public/monowe. Una voce persuadente ci invita a partecipare alla selezione (ancora una volta!) per l’unico posto a disposizione per la città di Monowe mentre sostiamo di fronte a due sculture aliene, spiazzanti, certamente e volontariamente prive dell’eleganza che contraddistingue invece l’area della Manifattura delle Arti in cui si ergono e a cui Bologna ha affidato buona parte della sua identità negli ultimi dieci anni (un piacevole sobborghetto interamente ricostruito col tipico mattone rosso, tanto di giardinetto e ciottolato medievale). Strutture abbozzate, senza chiara funzionalità, disegni di pazzi architetti o ignari bambini, che hanno origine dalla giuntura di tubi innocenti e vengono infine ricoperti da un’intelaiatura di plastica bianca. Si tratta apparentemente di elementi primordiali di una città del futuro, ma l’invito in realtà è per oggi…si può partecipare fin da subito e chissà – mi son chiesta – se qualcuno ha davvero richiesto la cittadinanza di Monowe? C’è posto per una sola persona a Monowe, ci dice la voce…e finalmente lì il fortunato abitante prescelto potrà starsene da solo, nel lusso di tutte le comodità che la città offre.

Sembra ironia o fantascienza ma quanti di noi non lo vorrebbero? Non è forse quello che la maggior parte di noi fa o tenta di fare nella propria vita, viverla autonomamente, al riparo dagli altri, senza mai retrocedere di un passo?

DOPO, DOMANI, una riflessione sul futuro che però a me pare sia prima di tutto un invito a guardare all’oggi, a stare nel presente, a riconoscerci, come viviamo, a interrogarci, su come lavoriamo.

È questa d’altra parte la natura prima dell’arte contemporanea, non la sua bellezza formale, come molti reclamano, bensì la sua capacità di farci dialogare col presente, di portarci oltre un tempo passato che procede per declami ma non lascia spazio al dialogo, e di porci di fronte a un futuro di questioni pregnanti del mondo come di ognuno, di attivare una consapevolezza individuale e uno sguardo critico soggettivo nell’ottica però di una vita che è, evidentemente, non mono, ma plurima.

Ciò che è bello a mio parere, oltre che molto significativo, non è la forma estetica ma il modo, la modalità in cui ciò avviene dentro l’istituzione, laddove l’arte sta riconquistando spazi di discussione mancanti in altri settori.

www.onpublic.it

L’Italia di Kentridge

Una processione. Niente di più italiano. Italiani, un popolo di credenti, nonostante tutto, un popolo di romantici e nostalgici. E per fortuna. Qualcosa ancora c’è rimasto. La nostra memoria, storica e attuale, la nostra cultura, ciò che vivifica ancora oggi il senso comune.
A ricordarcelo è William Kentridge, un artista sudafricano ormai noto in tutto il mondo che l’Italia la ama e che risiede ora nella capitale per seguire i lavori del suo Triumphs and Laments: un progetto per Roma, un’opera urbana di cui si parla da tempo, voluta e ideata da più di tre anni grazie all’invito rivoltogli dall’Associazione Tevereterno. Maestro della tecnica e delle tecniche, sperimentatore indisciplinato che passa dal disegno all’animazione, dalla scultura al teatro, questa volta Kentridge è invitato da un’altra artista, Kristin Jones, direttore artistico dell’associazione e del progetto, ad adottare una nuova tecnica, già nota ai graffitisti più “bio”, l’arte del vapore, sì, proprio come la vaporella che si usa sui vetri di casa…solo su grandi, grandissime dimensioni, per mezzo di stencil alti fino a 12 metri.
Con questa tecnica una squadra di volontari, che ha prima ripulito dai rifiuti l’area del lungotevere destinata all’operazione, ha affiancato l’artista sotto la direzione tecnica di STEP s.r.l. nella realizzazione degli ottanta disegni ricavati sui muraglioni di travertino che arginano il Tevere per mezzo della pulizia della patina biologica depositatasi nel tempo. Figure-fantasma animano questa processione che si protrae per oltre mezzo chilometro quasi ballando al dondolio delle onde del fiume. Sì, perchè tutto nasce da lì, dal fiume, da questo fiume che è il Tevere, dove i fondatori della città trovano la vita, dove inizia a scorrere la storia tra “trionfi e lamenti” fin dalla lotta originaria dei due gemelli, Romolo e Remo.
E non a caso. L’arte di Kentridge è così. Generativa. Si nutre del costante movimento dello sguardo e del pensiero, dell’influenza libera di uno sull’altro, del sovrapporsi di memorie presenti e passate, del continuo aggiustarsi dei segni.
Queste figure vivranno di una loro vita, nel tempo cambieranno, saranno sguardo silente di accadimenti e memoria incombente di eventi trascorsi, effimeri aliti, nuvole in trasformazione.
Si tratta di una danza di santi, re e regine, eroi e ribelli. Da piazza Tevere, tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini è facile scorrere quella che sembra la proiezione di una pellicola su cui l’artista ha immortalato i simboli della storia della città, laddove non è difficile riconoscere personaggi cinematografici accanto a volti imperiali e imperialistici, o a quelli di eretici e reietti, iconografia e agiografia che da sempre accompagna un nostro immaginario (non solo romano) che qui ci viene posto di fronte, viene fatto emergere come da un inconscio collettivo.
Quest’opera più che per sé Kentridge sembra averla fatta per noi, per noi italiani. Ed è ciò che accade d’altra parte quando un artista esce da una galleria o da un museo per incontrare uno spazio altro, e come in questo caso, urbano. L’opera in sé non appartiene più solo a lui ma ad una comunità e sarà la comunità, poi, nel tempo, a legittimarne o meno la presenza, a decidere o, meglio, a sentire, se in quell’opera ci si rispecchia oppure no. Dopo un reciproco annusamento, talvolta passando per parziali o irritati imbrattamenti e violazioni, talaltra per totali atti devozionali…sarà interessante vedere che ne faranno i romani di quest’opera così delicata. L’artista sembra dirci “Io ho solo svelato ciò che stava sotto la patina, ciò che voi siete e da dove venite (certo, di fronte agli occhi di uno straniero), ora sta a voi decidere che farne, dei trionfi, come delle sconfitte. Certo ci sarà una manutenzione costante e si può parlare di un progetto che ha avviato un’opera di risanamento o rigenerazione di un’area degradata, ma quel che è più eloquente è l’atto di restituzione che Kentridge ha fatto, quasi senza aggiungere niente a ciò che la città e la sua popolazione (non solo di residenti) già avevano.

L’inaugurazione ufficiale è stata pensata in occasione del Natale romano, il 21 aprile, quando, nel 753 a.C., veniva leggendariamente fondata la città di Roma, e l’opera verrà accompagnata da un concerto-performance ideato dall’artista in collaborazione con i compositori sudafricani Philip Miller e Thuthuka Sibisi (alle ore 20.30 con repliche il giorno dopo alle 20:30 e alle 22:30). Una danza di ombre e oltre quaranta vocalisti e musicisti alle prese con strumenti molto diversi quali la kora africana e la zampogna italiana suoneranno musiche originali nel corso di due processioni musicali, dei trionfi, e dei lamenti.
Promosso anche dall’Assessorato alla Cultura e allo Sport di Roma Capitale, il progetto è stato reso possibile grazie al supporto delle due gallerie che dalla fine degli anni Novanta seguono e sostengono il lavoro dell’artista, non solo entro le mura dei loro spazi, Lia Rumma e Marian Goodman.
A completamento del progetto nella sede di Milano di Lia Rumma da pochi giorni si è inaugurata la mostra Triumphs, Laments And Other Processions (fino al 24 maggio) che propone un percorso complementare all’intervento urbano di Roma. Qui infatti l’artista apre un excursus sul processo che precede l’installazione mettendo in mostra i disegni a carboncino, gli inchiostri e i collage preparatori all’opera finale.
Al primo piano, una lunga bacheca mette in fila le figure che ritroviamo sul lungotevere, tracciate a carboncino su pagine di vecchi libri mastri ottocenteschi appartenenti forse a latifondisti del nuovo Regno d’Italia o ricavate da ritagli di cartoncino nero su vecchie mappe invece d’epoca coloniale. Artista anche, se non soprattutto, dedito a decodificare gli aspetti politici della storia dell’uomo, William Kentridge da tempo è considerato uno dei rappresentanti più significativi del suo paese per come ha trattato e rielaborato il tema razziale e la storia coloniale. Sudafricano bianco, figlio di avvocati difensori dei diritti umani, che vive in prima persona la complessità di una posizione ambigua, fa della sua arte non tanto un gesto di denuncia ma uno specchio che riflette la complessità della storia, il suo ripetersi, sovrapporsi, cancellarsi e riproporsi alla memoria. Al piano terra, la grande installazione video More Sweetly Play the Dance (2015) su otto schermi, a formare un cerchio (che ha del circense) per oltre 40 metri di lunghezza, anch’essa una parata, questa volta musicata, porta il visitatore dentro una marcia politica, migratoria, guidata da una banda di ottoni e chiusa dalla danza inconfondibile di Dada Masilo (ballerina sudafricana che da tempo lavora con l’artista) che, in punta di piedi porta con sé un fucile a protezione o minaccia del gruppo di marcianti. Ognuno porta un fardello, o una bandiera, sorreggendo un’asta su cui si innesta una grande silhouette: un gruppo di preti ondeggia gigli giganti, pazienti avanzano con le loro flebo, accademici in toga innalzano sopra i loro capi busti di filosofi dell’epoca classica, altri brandiscono ritratti di propagandisti, gabbie, scheletri danzanti, una vasca da bagno…Sulle loro teste palpita un altro ritmo di enigmatici vessilli, gli stessi che riconosciamo al piano sopra come sculture, appese al muro.
Una forma, quella delle Processioni, che nasce quasi vent’anni fa quando Kentridge inizia le Shadow Procession su muro e continua nel tempo conoscendo ogni volta una narrazione diversa.
Danze macabre, marce verso buchi neri, passi insistenti di uomini soli che fronteggiano lo scorrere implacabile del tempo. E’ la solitudine meditativa del camminatore, ma anche una solitudine spietata quale quella sociale – ha raccontato recentemente l’artista rispetto a quest’ultima installazione in mostra – file di persone che camminano in fila indiana da una paese a un altro, da una vita verso un futuro sconosciuto. Processioni disperate e ma in certo senso anche devote, forse non così dissimili da una ritualità popolare che riesce (o forse riusciva) a far aderire intere comunità in quel semplice gesto “dovuto”.

Quei graffi sui muri

sul lavoro "Urban Spray Lexicon" del collettivo teatrale Ateliersi

Da una città che lotta da anni, decenni, contro la violazione del muro “pubblico”, che vede susseguirsi amministrazioni che, ognuna a proprio modo, si ostinano, sebbene consapevoli dell’inutilità del gesto, a pulire e ripulire intonaci di palazzi, portici, colonne e serrande dai segni a spray che, dall’altra parte, gli avversari di questo duello, le giovani bande graffittare, persistono a comporre in un crescendo sempre diverso; da una città come Bologna, che vanta una tradizione più o meno legittimata di writers che proprio ora vengono scritturati dal Comune per comporre facciate intere di palazzi di periferie, e che sebbene desideri vantare questo primato non si trova ad esser poi tanto diversa da Milano, Roma o Zagabria; da queste strade, ovvero dalla strada, da questo luogo che è un alternarsi e altalenarsi di spazio pubblico e privato, di concessioni e appropriazioni, di voci, firme, legislazioni; da qui, dallo studio, dal loro rinnovato spazio Atelier Sì che dà il nome alla nuova forma che si è data il gruppo, non più compagnia teatrale ma collettivo di produzione artistica, ecco, dalla ricerca che da anni porta avanti sui luoghi di confine, Ateliersi fa nascere il suo ultimo ampio progetto: Urban Spray Lexicon.

Urban Spray Lexicon è un’esplorazione, un’esperienza, una raccolta, un’appropriazione e infine una rilettura in chiave drammaturgica e performativa di un lessico ignobile come quello delle scritte sui muri. Non è uno spettacolo teatrale, o, almeno, non solo, è una ricerca complessa che trova direzioni e forme molteplici per approdare a questo spazio irrisolto. È un tentativo di porsi nei confronti di segni che impregnano il paesaggio urbano contemporaneo, non per comprenderli, spiegarli, raccontarli, bensì per farli risuonare…

è dura ma via amo
cago sulle frontiere
evasione dall’esistente
non si dovrebbe essere mai soli
sogno di essere un imbecille felice
ieri ho finito gli esami oggi ho tanta paura…

Chi ci sta dietro queste frasi, questa infilata di parole spesso mal scritte, sproporzionate, volontariamente o involontariamente scorrette, oppure precise, sintetiche, scelte o, ancora, storte, minute, titaniche, accurate o invadenti…non lo possiamo sapere. Non c’è autore in queste voci, né spesso alcun intento autoriale o artistico. Chi decide di incidere parole su un muro lo fa per non parlare solo a se stesso, perchè quel muro è anche suo ma non solo suo. Lo fa per mettere nero su bianco quel raggio di pensiero o l’intera costellazione di un discorso nel suo passaggio dal privatamente stridente al pubblicamente invadente, per disturbare, richiamare l’attenzione su qualcosa che non vuole riguardi solo lui. Qualcosa che spesso suona come già sentito, che ripete, che è contro o a favore, qualcosa che spesso non ha alcuna pretesa in più dell’essere lì, su quel muro, qualcosa che spesso assume più valore per chi legge che per chi scrive.
Per chi scrive è nel gesto l’essenza prima del segno, è nell’atto del fare più che del dire. È il grado zero della rivolta, l’urgenza di lasciare un segno…

Spesso anche le case, le stanze, gli spazi loro privati, di questi anonimi scrivani, hanno i muri imbrattati di scritte, loro o di altri. Scordiamoci dunque che sia una moda. Gli stili cambiano, le regole anche, così come i caratteri, i temi e le altezze. Diverse statistiche confermano che si tratta anzi di un “fenomeno” in aumento. Improbabile dunque cercare anche di cimentarsi nella soluzione di una controversia che va avanti da sempre tra chi le scritte le vuole bandire e chi desidera adeguatamente confinarle. Certo è che le scritte rimangono e hanno origine molto lontana.

Urban Spray Lexicon inaugura il suo primo capitolo nel 2012. E’ Boia-concerto breve per imbrattamenti, voce e sintetizzatori (2012-2014), presentato nella sua prima forma ancora embrionale a Bologna nell’autunno del 2011 per il progetto Bologna al muro, quindi al Festival perAspera nel 2012, all’Angelo Mai di Roma nel 2013 e in numerose altre rassegne tra cui, lo scorso luglio al Festival di Santarcangelo dei Teatri, con la presenza “ofelica” di due giovani cinesi, Cherry e Giù arricchita dalla sonorità della lingua inglese, quindi, a seguire, alla rassegna Teatro a Corte di Torino, e che approderà a settembre a Rovigno, in Croazia per il festival BLITZ. Boia è un crescendo incalzante di parole e suono che da principio riverberano come battiti astratti, quindi mutano nei versi di un vero e proprio cantico che poco a poco si svela allo spettatore nella sua origine, risucchiandolo dentro a un vortice di frasi che si fanno via via sempre più riconoscibili, distinguibili, e che sebbene non coincidano esattamente con qualcosa di conosciuto risuonano alla fine come un’immagine visibile. È la città che prende forma. Il senso del discorso lascia spazio all’architettura solida, la parola al paesaggio. Boia è una raccolta, un’antologia, una collezione di materiali sfuggenti, mutevoli, disordinati, a cui viene dato provvisoriamente un ordine per comporne un poema. La voce di Fiorenza Menni che ne scandisce il ritmo, sola, amplificata, moltiplicata, diventa coro. È il coro di voci anonime che, come nell’antica Grecia, commenta la vicenda e dà voce al pensiero collettivo, ci dice da che parte stare, quali sono le parti in gioco, giudica e prende posizione.
In scena però la vicenda manca. Perchè la vicenda è là fuori, fuori dal palco, in strada, in città, è quella che conosciamo bene, la vita di ogni giorno tra delusioni e traguardi, l’esperienza che riguarda ognuno di noi e noi tutti insieme, è ciò che succede fuori e dentro i palazzi…
Così la troviamo in Se la mia pelle vuoi, il secondo capitolo del progetto, (di e con
Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi, in scena assieme a
Arianna Belloli e Alessandro Fantinato; presentato in occasione dell’ultimo Gender Bender Festival di Bologna a novembre 2013), laddove la ricerca di Ateliersi si è interrogata sull’origine del gesto che porta a scrivere sul muro. Il tema naturalmente è quello della comunicazione o, meglio, della non comunicazione e del nostro costante tentativo di rinnovarla, di accendere il discorso, la parola, il dialogo, mentre, al contrario la vita attuale ci conduce esattamente e paradossalmente dalla parte opposta.
Qui Ateliersi si interroga su ciò che precede l’atto di scrittura, sul tempo antecedente il momento in cui il grido s’inscrive sulle superfici…Dietro le scritte la vita: piccoli eroismi senza seguito, come ha scritto una volta Céline, forse, o un altro poeta d’assalto.
Siamo tra i palazzi e la gente di una città di grattacieli e luce sempre a giorno. Non può avvenire altrove… Se usciamo dalla città, se andiamo anche solo in una cittadina di provincia, o addirittura se arriviamo fino ad un piccolo paese, scritte e graffiti vengono progressivamente meno…certo ne rimangono, cambiano le dimensioni e gli interventi a spray diventano quasi opere di land art, visibili da una certa distanza o in relazione al paesaggio, ma l’imbrattamento è meno ossessivo, sistematico, dissacratorio.
Forse perchè i palazzi pubblici, quelli tutelati, i monumenti, i falsi i veri, i vecchi e i nuovi sono molti meno, forse perchè le case private sono più riconoscibili, forse perchè ci si conosce di più e si teme di essere riconosciuti, forse proprio perchè verrebbe meno l’anonimato, o perchè c’è meno bellezza monumentale da violare o, al contrario, è lo stesso paesaggio, più bello diremmo, magari arcadico, a non invitare allo sfregio. Forse perchè c’è più comunicazione diretta tra le persone, il circolo è più stretto, le cose da dire e da contestare non così vitali, forse perchè c’è meno libertà o, forse perchè ce n’è di più.
Vero è che il graffito, il graffiare il muro per dar voce alla propria opinione è un fenomeno che riguarda il paesaggio urbano, le mura, i muri della città.
Freedom has many forms. Note e notizie sul come e perché delle scritte sui muri, il terzo capitolo di Urban Spray Lexicon è una lezione paraccademica che inizia proprio con Brian di Nazareth che insorge contro i Romani scrivendo di nascosto “Romani andate a casa” proprio sul muro del palazzo del governatore. Siamo in una scena del film di Terry Jones coi Monty Python, e Brian, analfabeta, sbagliando la grammatica della frase, beccato dai Romani, verrà invece costretto a riscriverla, proprio come un somaro in classe, cento volte in modo corretto, ma il messaggio è chiaro: già un muro dell’epoca di Cristo è luogo ideale per far scattare la rivolta.
La lezione continua con altri spezzoni di film, immagini, commenti, costruendo una bibliografia e iconografia unica sul tema. A costruire e interpretare la lezione è Andrea Alessandro La Bozzetta che dalle denunce anticlericali della Roma del IV secolo ci conduce ai murales di Orgosolo in Sardegna, passando dalle rivolte sessantottine di Parigi e Milano in cui nasce il segno anarchico poi rubato dalla politica e dalla moda, e arriva fino al restauro del palazzo del Reichstag a Berlino nel 1992 dove Norman Foster sceglie di conservare gli imbrattamenti lasciati dai militari russi alla fine della guerra.
La scritta sul muro, questo atto che nasconde ragioni diverse ma che trova nella forma e nel contesto l’urgenza e la rapidità di un gesto comune che varca il confine tra l’individuo e la comunità a cui la scritta si rivolge, ha dunque radici in un passato che va molto lontano nel tempo e non accenna ad esaurirsi. Artisti, registi, scrittori…continuano a farsi ispirare da questi enunciati che nel loro stato spontaneo e liberatorio fungono da specchio del cambiamento in corso.
Le scritte fanno da sfondo a fatti, storie, fenomeni in transizione. Complice la lingua e il suo muoversi, la sua capacità e necessità di adattarsi alla rapidità del pensiero evoluto dell’uomo. Se il graffito diventa anche disegno, squarcio nelle architetture della città, quando rimane scritta l’immaginario si preserva. La scritta è in grado di condurci altrove, oltre quel muro, di aprire una finestra sulla vita di altri, sulla nostra, su quello stesso istante in cui ci accorgiamo di essa.
Chi scrive spesso si rivolge direttamente a chi legge, non scrive solo per se stesso, non è né cerca qualcuno di precisamente reale, aspetta chi passa, colui che passando sceglie di condividere quel pensiero, di aprire quel dialogo con uno sconosciuto. La scritta è un appello al pensiero collettivo, all’estrazione del senso e del non senso, un invito a disinibirsi, a liberarsi dalla convenzione della scrittura stessa…

bestemmia e liberazione
dappertutto in stile libero
deragliamento personale
comunque niente rimorsi
dormo poco sogno molto
scopata epica ti amo topo
in culo a tutte le ideologie

Ma come cambia la lingua?
Urban Spray Lexicon continua…affacciandosi, in una ulteriore fase di ricerca, direttamente alle finestre che questi segni aprono sui muri delle città. I materiali, divenuti un archivio di immagini e testi, una bibliografia, filmografia e iconografia, si adatteranno a nuovi luoghi in cui il progetto verrà proposto andando ad esplorare il fuori e il dentro di questa linea di confine che è “la parete pubblica”. Primo saggio di questa nuova deriva è stato Urban Spray Lexicon Open Class, un progetto laboratoriale promosso dal Festival di Santarcangelo dei Teatri sempre in occasione dell’ultima edizione, che si rivolge agli adolescenti, a quei ragazzini che sono i primi autori, questa volta sì, di segni in cui oggi si identifichino. L’attenzione cade infatti sulle tag, firme che non sono più bozze di discorso, urla vomitate in strada, parole visionarie e immaginifiche, graffi di rivolta, protesta, amore e lotta, ma che suonano al passante come sberleffi, selfie grafici, esercitazioni di “autori” che testano il proprio marchio per competere con quello altrui, con quelli pubblicitari, commerciali e istituzionali secondo regole precise, di spazi e ruoli in un contesto cittadino che funge da palestra, luogo di indagine, consenso e popolarità. Serrande, mattonelle di bagni più o meno pubblici, portoni, finestre, botole, nicchie, colonne…laddove sarà più difficile cancellarle.
La scritta sul muro d’altra parte convive da sempre con la sua stessa morte, nell’attesa della sua cancellazione, ma forse proprio questa temporaneità è l’essenza principale di questo vociare in continuo movimento.
…Quale segno resterà dunque mai davvero indelebile?

Blu Bologna

BLU BOLOGNA

Salivo a piedi verso San Luca, seguendo il porticato, già uscendo dalla città, che stava già ai miei piedi, sulla destra. Per chi non è di Bologna, San Luca è un santuario, una chiesa in cima a un piccolo colle, cui solitamente si sale in pellegrinaggio quando sia ha necessità di riflettere, di smaltire qualche chilo, di consacrare un fioretto fatto per passare un esame, di pregare per qualcuno, o semplicemente di uscire dalla cappa bolognese… non solo d’inquinamento.

In venti minuti sei fuori, vedi alberi, valli, fiori e case meravigliose, senza macchina, fuori dalla città, fuori dalle ansie della giornata, dalle urla della famiglia, dal cemento, dal “vendesi/comprasi” o dal “cercasi/offresi” cittadino.

Di posti così a Bologna ce ne sono sempre meno, isole di libertà non forzata, in cui si può perder tempo con se stessi ma anche con gli altri, in cui capita di ascoltare lingue diverse e di comprendere scopi diversi, in cui lasciar spazio alla vista, notare i dettagli e le ampiezze, in cui ridimensionare le urgenze fino a poco prima considerate stringenti.

Non so se è la parola giusta ma mi viene da chiamarli spazi di sacralità.

Sì, a Bologna di spazi sacri ne sono rimasti pochi, pochissimi.

Oltre San Luca, suonerà forse un po’ strano quel che dico, l’XM24 è uno di questi: San Luca e XM24, perché no? Due posti da frequentare in libertà.

San Luca è un santuario, l’XM24 un centro sociale nato nel 2002 dal recupero di un fabbricato abbandonato dopo il trasferimento del mercato centrale ortofrutticolo che prima vi trovava vita. L’edificio è stato occupato, risistemato, attivato come luogo autogestito dedicato alla cultura a 360 gradi, dall’insegnamento della lingua italiana alla pratica dell’incisione, dalla sistemazione delle bici, ai dj set… un luogo libero, sacro, appunto, in cui discutere, divertirsi, creare, imparare, gli uni dagli altri. Perno dell’attività il mercato, ovviamente, sulla scia della sua originaria natura: un mercato a km zero che dà spazio ai coltivatori locali… ma non solo.

Fino a ieri quasi un orgoglio per la città, no problem, nessuno li caccia, ci mancherebbe, una realtà che nutre tanta vita… oggi però non più. No, ragazzi, qui sta per prendere vita un quartiere residenziale importante, lo sapevate, va adeguato il piano del traffico affinché questo quartiere sia collegato col centro, quest’area, la Bolognina, potrà finalmente diventare la nuova area cool, con affitti in rialzo (ma la gente non è in bolletta?), tutti i servizi sotto casa, la pista ciclabile, il parchetto dove fare jogging, l’asilo, il centro commerciale, il ristornante etnico… sicuramente potreste spostarvi da un’altra parte… qui è finito il gioco, ora si fa sul serio.

Già, perché funziona così, prima li diamo ai punkettoni alternativi, agli artistoidi, che ci controllano l’edificio, lo rimettono a nuovo, si autoproducono cose interessanti, portano gente dall’estero… poi, quando è ora, si vende! Perché? Perché quel che sa fare la nostra amministrazione oggi è batter cassa, vendere mq, palazzi, ex caserme, ex fabbriche, riscuotere affitti, imporne dei nuovi… L’XM24 è solo l’ultimo di una serie, quasi tutti i cinema hanno chiuso per diventare franchising senza che nessuno battesse ciglio, spazi di studio sono stati murati per evitare che si fumassero le canne, degli spazi indipendenti viene costantemente negoziata l’autonomia… sebbene forse non se ne accorgano.

Ma in fondo sì, ci potrebbe anche stare, potrebbe essere una politica. Ma cosa viene restituito? Dove si va a parare? Che politica è?

È una politica dove mancano le idee. Perché la buona vecchia Bologna su cui ancora fino a pochi anni fa riponevamo tante aspettative è davvero finita, non c’entra la destra o la sinistra a quanto pare, il problema è un altro, è la mancanza di idee, idee di sviluppo che diano orientamenti, creino innovazione, alimentino gli stimoli e vadano oltre il puro desiderio di affermazione del potere. I soldi c’entrano solo in parte, perché Bologna di risorse, anche non economiche, ne ha sempre avute, c’entra la voglia di fare le cose diversamente, di imparare le regole anche dei giochi degli altri… e invece quel che succede è proprio il contrario, siamo noi, cittadini, che ci adeguiamo al loro gioco, e il gioco che ci stanno insegnando è a chi conta di più, ovvero a chi ha più soldi e posizioni più importanti: nomine, dirigenze, esercizio costante di potere, sottomissioni, de-responsabilizzazioni, annientamenti…mors tua vita mea, ad ogni costo.

E questo è quel che ci viene poco a poco impresso.

Dunque, che importa se la qualità della nostra vita è peggiorata, se amici e parenti hanno smesso di venirci a trovare svenati dalle multe, se il ragazzo ventenne in divisa che siamo felici abbia un lavoro mentre chiediamo indicazioni ci fa la multa per la sosta in doppia fila, se invece che fuori da cinema e librerie storiche i ragazzi stanno in fila all’apple store, se un caffè al bar arriva a costarti un euro e venti, se le piste ciclabili finiscono sui vialoni, se smetti di andare al mercato in “piazza” per non sentirti un turista pirlone, se il tuo capo, figlio di papà, più giovane di te, si è comprato la laurea, se dottorati cinquantenni fanno ancora i power point a professori novantenni, se i trentenni al golf club discutono se è meglio Madonna di Campiglio o Cortina ma non sanno dov’è Sarzana, se c’è chi può fare una telefonata e chi deve mettersi in coda, se i ragazzi scalpitano in attesa della vertical session o della white sensation invece che all’uscita dell’ultimo album di una nuova band (quale, effettivamente?), se gli studenti usciti dal triennio di filosofia non sanno chi è Morandi, Giorgio, non Gianni, se i nostri freezer sono pieni di quattrosaltinpadella da scaldare al microonde e mangiare davanti alla serie televisiva del mercoledì sera… ?

Che importa? A chi importa? A loro, a chi sta al potere, sì, a loro va bene così, nel piccolo della nostra città… nel piccolo di ogni relazione, tutto ciò si alimenta nel piccolo di ogni dialogo o non dialogo, di ogni scelta o non scelta. Tutto ciò si alimenta educando all’indifferenza verso l’altro e il suo pensiero, alla mancanza di rispetto, al disinteresse e anzi all’indipendenza dall’altro, alla diffidenza, alla difesa.

Ecco che ti senti preso in giro, che te la prendi con chi esegue gli ordini dall’alto, con chi cerca di arrangiarsi come può, con chi si veste in un certo modo, con chi ha i cani, con chi ha le pellicce, con chi cerca di stare dalla parte di chi conta, con chi finge, con chi ti mente, con chi ti frega… tu, contro di lui, e lui chi è? Nient’altro che un comune cittadino come te, magari un tuo collega, un tuo vicino di casa, un tuo parente…

Io non capisco molto di politica, anzi la detesto profondamente, non ne capisco il linguaggio, le parole mi suonano vuote, senza contenuto, inutili, non riesco a farne tesoro, ma qui non stiamo parlando di politica, ma di strategie di dominio che si vedono, si sentono, mentre trasformano il nostro paesaggio, visivo, urbanistico, umano.

Per chi come me non ha voglia o strumenti per capire che sta succedendo lassù, in alto, nelle stanze del potere, ancora una volta ci ha pensato l’arte, ci ha pensato Blu, con un dipinto, un’immagine, proprio come succedeva nel medioevo in chiesa quando la pala d’altare ammoniva e istruiva i fedeli sulle cose del mondo.

Blu si è preso il muro dell’XM 24 proprio quando il Comune ha dichiarato la demolizione e ci ha disegnato sopra. Diciamo pure dipinto, perché quel lavoro è durato oltre un mese, otto metri per otto, dettaglio per dettaglio, segno dopo segno, pennellata dopo spazzolata.

E già questo basterebbe come messaggio: il fare e basta, senza tanti indugi, senza troppe parole.

L’arte d’altra parte è così. È l’arte a prendersi la briga. Quella stessa arte che viene chiamata in causa quando c’è da risolvere qualcosa, quando non ci sono soldi, quando diventa troppo faticoso… l’arte non si risparmia, non calcola, non teme (e parlo di arte come scelta, di lettura, interpretazione, contraddizione della realtà). E Blu è un artista, per chi non lo conoscesse (beh, per chi non lo conosce è il caso che si vada a guardare il sito blublu.org, essendo tra i più grandi autori del nostro secolo… senza firma però, perché la sua arte non si mette in casa né ha un’istanza economica, forse politica e certamente artistica), formatosi a Bologna ma ormai dovunque, nel senso che agisce e vive ovunque, è un cittadino del mondo. Sì, lui lo è. Lui disegna sui muri, nei cortili, dentro ai tubi, disegna l’uomo. Sì, semplice, disegna l’uomo nel suo fare e disfare, nel suo trasformarsi, nel suo essere in lotta con la natura, nelle sue ossessioni, nelle sue follie: un uomo che funge da specchio a chi lo guarda, un uomo sproporzionato, spesso goffo, stupido, a disagio, che fa fatica a controllare il suo corpo o che giganteggia baldanzoso. L’uomo, il suo essere eroe, vittima, carnefice, procreatore di se stesso e del suo ambiente, il suo auto-riferirsi, la sua bramosia di conoscenza, il suo costante fallimento, il suo precipitare, il suo essere paradossale, il suo essere massa, robot…

Su quel muro dell’XM24 Blu è come se ci si fosse immolato per raccontarci Bologna, oggi, lui che ormai la vede da fuori. Le due torri ci sono, le mura di cinta, il sindaco, le bici, la mortadella… ci sono tutti gli elementi d’hoc nel suo murales, ma non è precisamente la cartolina che siamo abituati a vedere su google, o a leggere sui giornali. Anche chi non ha gli strumenti per riconoscere tutto e tutti (per questo suggerisco magari di andarselo a vedere dal vivo e di ascoltarsi la presentazione che ne ha fatto Wu Ming), chi non è di qui, chi non ha letto Il Signore degli anelli, chi non ha visto Guerre Stellari, chi non sa chi è Uilli, o non vede nel centro sociale Atlantide che una porta delle mura cittadine, chi non sa che gli animali della bandiera dell’XM24 sono un cane, un piccione, un topo, beh, chiunque, proprio chiunque, di certo, una cosa la capisce: siamo in guerra.

Già. “Occupy Mordor” ci dice di una Bologna in guerra. La dichiarazione è sancita, questo muro dipinto la sancisce, qualora qualcuno non se ne fosse accorto. E non si tratta della politica, della destra e della sinistra, della religione, sono i cittadini ad essere in guerra, gli uni contro gli altri.

Bologna brucia (è questo il nome del festival dedicato a tutti gli spazi occupati in città), brucia di odio e tensione malsani, brucia di invidia, di diffidenza, Bologna fa paura, è una città che, oggi, fa paura. Si respira ansia, preoccupazione, delirio, la gente parla e teme il fallimento, economico ma, peggio ancora, personale: o sei dentro o sei fuori. La lotta che racconta Blu d’altra parte è proprio questa: tra chi è dentro le mura e chi è fuori… la gita fuori porta, oltre le mura? E chi ci pensa più, ora occorre barricarsi, tirare fuori armi e bagagli contro tutto e tutti. La lotta è tra chi vuole arricchirsi e comandare e farlo vedere, e chi ha altre priorità, come inventare software, imparare a coltivare, divertirsi, comunicare, ricavarsi spazi di creazione e ricreazione, spazi di sacralità… qualcosa come coltivare le proprie idee, senza timore, magari anche senza finalità?

Ma a ben guardare lo spettro si allarga: sul murales i cittadini non sono solo bolognesi, sono cittadini contro cittadini in ogni città, in ogni regione: troviamo sigle, segni, riferimenti troppo chiari per non parlare a tutti… No VAT, No TAV, l’estintore di Giuliani al G8, i libri scudo dei Books Bloc, gli a/i (autistici inventati), la (((i))) di indymedia, combattono contro casse e cassieri, forconi, caschi e scudi corazzati, ruspe, camion. Burattini contro ciclisti, mortadelle contro cocomeri, controllori contro controllati, banchieri contro ravers… gli uni contro gli altri, l’uno contro l’altro, all’insegna dell’individualismo e della legge del guadagno… all’insegna della paura, quella paura che non fa che arricchire psicologi, osteopati, becchini…

Quand’è successa questa roba? Chiediamocelo, per cortesia, chiedetevelo per cortesia… adesso, appena uscite e incontrate qualcuno, cercate di non odiarlo perché ha la giacca più bella della vostra, perché ricopre una carica più alta, perché vi ha attraversato la strada inaspettatamente, perché il suo cane ha pisciato sulla gomma della vostra auto, perché è lento a riempire le buste al supermercato… non rendiamoci stupidi, non rinunciamo al nostro pensiero di uomini, al nostro corpo di animali sociali, al potere delle nostre idee.

The Journal. Nosadella.due 2007-2011

il libro che racconta i primi cinque anni di attività di Nosadella.due - Independent Residency fro Public Art

Journal 2007-2011
Al compimento del suo quinto compleanno, Nosadella.due pubblica un libro in cui racconta le scelte che hanno guidato i progetti, il lavoro sul territorio, la relazione con artisti e curatori ospiti. Il libro nasce dalla necessità di dare forma ad un metodo in realtà mutevole, al limite tra il privato e il pubblico, di un’esperienza che nasce nel 2007 dall’iniziativa di Elisa Del Prete ma che si sviluppa nel tempo come valore per il territorio attraverso un lavoro sul contesto di ampliamento, contaminazione, co-progettazione e diffusione.
In questi cinque anni Nosadella.due invita curatori stranieri a conoscere l’arte contemporanea italiana e i suoi protagonisti, così come sceglie gli artisti per interventi che offrano una lettura esterna su ambienti e situazioni specifici, da un lato attraverso opere installative o performative in spazi pubblici al di fuori dell’ambiente protetto dell’arte, dall’altro dando vita a opere autonome che si delineano come capitoli di un ampio ritratto della città come del paese. Un impegno che si realizza anche attraverso un dialogo costante con diverse realtà del territorio locale e nazionale, altre residenze e produzioni di strutture giovani e meno giovani, istituzionali e indipendenti, con cui sviluppa progetti condivisi anche all’interno dei suoi spazi.
Laboratorio, casa, sede espositiva, luogo di sperimentazione, per gli artisti come per il pubblico, Nosadella.due si è costruita un’identità molteplice pur diventando punto di riferimento per artisti in cerca di esperienze all’estero, come per progettazioni site specific sul territorio.

Il libro raccoglie tutto questo e molto altro, attraverso le tre ampie sezioni “Progetti di residenza”, “Azioni in residenza” e “Pass – Produce Art (as) Social Strategy”, progetto in progress che riflette sul valore dell’arte come elemento per una strategia sociale e che volge uno sguardo a quei paesi vicini che guardano all’Italia come terra di passaggio, simile e distante al tempo stesso.
Un’ultima parte compone il “Guestbook”, una sezione speciale che raccoglie contributi inediti di tutti gli ospiti che sono passati da Nosadella.due, e di cui qui lasciano un personale ricordo. Infine, oltre al Guestbook, Journal 2007-2011 si costruisce attorno alle voci stesse dei protagonisti di questa esperienza, focalizzando la sua struttura sulla visualizzazione dei processi. Ecco perché l’attività del 2011 è raccontata attraverso un unico grande diagramma che mette a fuoco obiettivi, azioni e partner coinvolti in una sintesi che, sa da un lato riflette l’intensa attività di un solo anno, dall’altro diventa strumento di indagine per un nuovo posizionamento futuro. Più livelli si stratificano in questo libro, che è prima di tutto un racconto per immagini, un “organismo” (come lo definisce il book designer Diego Segatto) sempre in trasformazione, che, nato per parlare di Nosadella.due come “cuore” pulsante di un sistema complesso fatto di persone, esperienze e ambiente circostante, diventa esso stesso un corpo vivente.
Il progetto editoriale nasce a più mani: accanto a Diego Segatto, ideatore grafico, Elisa Del Prete, Giusy Checola e Francesca Cigardi di Nosadella.due, molti sono stati i contributi raccolti in tutto il processo di gestazione. (Lelio Aiello, Sotirios Bahtsetzis, Luchezar Boyadjiev, Cecilia Canziani, Beatrice Catanzaro, Giusy Checola, Giuseppe Chili, Francesca Cigardi, Nico Dockx, Silvia Fanti, Emilio Fantin, Marina Fokidis, Chiara Galloni, Giovanni Ginocchini, Andreas Golinski, André Guedes, Hamelin, Markus Hofer, Andrea Lissoni, Søren Lose, Heidi Lunabba, Jukka Korkeila, Vasif Kortun, Xana Kudrjavcev-DeMilner, Bruno Marano, Sergio Messina, Margherita Moscardini, Andrea Nacciarriti, Vessela Nozharova, Lupe Núñez Fernández, Oyku Ozsoy, Susanna Paasonen, Marta Papini, Cesare Pietroiusti, Martine Pisani, Alessandro Quaranta, Jakob Racek, Stefano Romano, Elsa Salonen, Kalin Serapionov, Chris Sharp, Helena Sidiropoulos, Magdalena Ujma-Gawlik, Annamari Vänskä, Andrea Viliani, Federico Zanfi)

La realizzazione del libro è stata possibile grazie ai contributi di Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Regione Emilia-Romagna e Comune di Bologna.

Il libro è disponibile presso la libreria Modo Infoshop di Bologna oppure può essere richiesto tramite mail all’autrice.