Difetti del sistema.

sulla mostra "Glitch. Interferenze tra arte e cinema" al Pac di Milano

Da qualche tempo la sovrapproduzione di audiovisivi in arte, o di quelli che vengono comunemente detti video d’artista, ci sta mettendo in forte difficoltà, noi spettatori ma anche gli artisti. Gli artisti perchè con l’avanzare della tecnologia e soprattutto con una sempre più ampia accessibilità ai mezzi si trovano a poter sperimentare qualsiasi cosa e ad azzardare dunque qualsiasi qualità e alterazione dell’immagine, o, dall’altra parte, perchè si trovano a doversi confrontare con produzioni di tipo cinematografico e a lavorare con direttori della fotografia, produttori esecutivi, tecnici del suono e così via…che confezionano un prodotto di quel tipo lì, appunto cinematografico, con cui poi devono fare i conti. Gli spettatori perchè, abituati fino a poco tempo fa a pensare il cinema sul grande schermo, non sanno come porsi di fronte ad un altro tipo di schermo, spesso un muro con una proiezione, a volte un monitor, altre un supporto speciale e così via…o, ancora, non sono preparati a vedere mostre in cui di video ce ne sono più di uno e, anzi, spesso talmente tanti da non avere il tempo fisiologico per vederli tutti. Disagio che viene incrementato dal tempo, dalla durata di ciò a cui si assiste, dall’imbarazzo di fronte a qualcosa di già iniziato o che non si sa quanto dura, che non si sa da che parte guardare, da una posizione inadeguata, spesso in piedi, distratti da mille altre forme circostanti, insomma tutt’altro che al cinema.
Eh già, perchè l’arte è arte e il cinema è cinema.
L’invasione di campo che c’è stata recentemente, soprattutto della prima nei confronti della seconda, sta aprendo non solo questioni, ma forse anche veri e propri problemi di lettura.
A mostre importanti, ricche di opere, contenuti, punti di vista, angoli di osservazione, rimandi a processi in corso o già avvenuti…mi è capitato di trovare nel video un rifugio sicuro. Bene, meno male, ecco un video, so come si fa, so come si guarda. Mi siedo, quando c’è la sedia, e guardo, qualcosa mi dirà. Eppure quasi sempre al termine della proiezione, quando ci arrivo, mi sembra manchi qualcosa, mi sembra di essermi persa pezzi per strada, mi manca un prima e un dopo. Forse perchè il retaggio della narrazione cinematografica rimane forte o forse perchè l’opera ha semplicemente bisogno di essere accompagnata, da un contesto, da una postura, da una relazione, di lasciare spazio anche a ciò che non è. L’opera d’arte non finisce lì dove la vedi, come un film, si porta dietro pregressi e strascichi dai quali dipende in modo vitale.
Con la mostra Glitch, attualmente in corso (solo fino al 6 gennaio!), il Pac – Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano si è cimentato in una lettura delle produzioni artistiche delle ultime generazioni italiane legate in qualche modo al cinema: Interferenze tra arte e cinema dice il sottotitolo.
Il curatore Davide Giannella ha selezionato circa cinquanta artisti di cui propone anche più di un’opera datata negli anni Duemila, cioè appartenente al panorama degli ultimi quindici anni. La mostra si completa con un ciclo di performance che hanno luogo negli spazi del museo secondo un calendario sempre in progress consultabile sul sito del museo.
Di certo non è né il primo né il solo museo ad occuparsi di tale tema ma rimane interessante e importante l’intento di organizzare la ricerca e la poetica di tanti artisti, anche molto diversi tra loro, secondo le categorie del cinema, di cui lo spettatore, allertato fin dal titolo, inevitabilmente si predispone a servirsi. Ecco ad esempio che le foto di Ra Di Martino del ciclo No more stars / Abandoned Movie Set, Star Wars e Abandoned Movie Props, in cui l’artista documenta i resti ancora presenti nel deserto del Sahara delle costruzioni realizzate per i film di Guerre Stellari e le finte architetture dei film western o di guerra americani oggi abbandonate in qualche piana tibetana, diventano immediatamente quei film stessi e la magia della finzione che gli oggetti di scena si portano dietro, mentre lo sguardo metafisico che su di essi si era depositato da parte dell’artista e l’esperienza di peregrinazione in questi luoghi che ha preceduto gli scatti passa in secondo piano. Così come le scene degli happy ending ritratte da Eva Marisaldi su piccole postazioni a cuscino non sono più ricami ma diventano “caccia al film”. O, ancora l’Anonimatografo di Paolo Gioli, che fin dal titolo ci invita ad uno sguardo intimo e riservato su certi ritratti rubati a pellicole di sconosciuti, e che richiederebbe una relazione ravvicinata, personale e anche una certa fascinazione per la magia di una tecnica di montaggio costruita ad hoc dall’artista stesso, diventa subito film muto d’altri tempi nello scorrere rapido di ritratti e paesaggi che, sconnessi, si inceppano.
La mostra si apre con una serie di installazioni di varia natura che costellano lo spazio su tre livelli. Il rimando al cinema dunque non è immediato come ci si aspetta, ma è subito evidente che quel che si incontra nello spazio non è il nucleo di ciò che siamo venuti a vedere. Zigzagando tra un’opera e l’altra si ha chiaramente l’impressione di star mancando il punto. E infatti il punto è là. Là dietro. Il punto è dietro alle tre pesanti tende di velluto rosso che nascondono le playlist, una per i giorni pari e una per i giorni dispari della settimana. Là dietro si nasconde il rifugio: bene, meno male, mi siedo (perchè qui la sedia c’è eccome) e guardo. L’ambiente vuole essere chiaramente quello del cinema, con file di sedute di fronte ad un grande schermo. Occorre sedersi e guardare. Tutto allo stesso modo. Non sappiamo inizialmente a che punto siamo arrivati e per quanto tempo ci verrà chiesto di stare seduti lì, ma se ci muniamo di un foglio di sala troviamo la lista di tutte le proiezioni, una decina, per un totale di circa 190′, un film lungo. Lo stesso per le altre due sale, per un totale di trenta video al giorno, mettendo in conto che saranno necessari almeno due giorni per vedere tutto o forse tre se non si vogliono spendere oltre nove ore dentro al museo. D’altra parte la ragazza alla reception è la prima cosa su cui ci informa: “L’avviso che la mostra non riuscirà a vederla tutta”.
Se il cinema era già entrato nel museo sotto forma di film, di “sezione cinematografica” di una mostra a tema ad esempio, qui entra decisamente a spazzaneve, lasciando l’arte ai margini e liberando la strada al traffico di immagini. Quel traffico di cui non possiamo più fare a meno, proprio come la strada asfaltata, quello scorrere irresistibile che ci calamita di fronte ad uno schermo, ancora meglio, se grande schermo.
Seduti a questo cinema dentro al museo si assiste allora alla narrazione di un viaggio alla ricerca di Satoshi, che scopriamo essere l’inventore misteriosamente scomparso del Bitcoin, peregrinazione messa poi in scena dal collettivo Alterazioni Video sotto forma del fotoromanzo o Turbo Film (come lo chiamano) Surfing With Satoshi, sullo sfondo di una skin trash blu ufficio su cui roteano monete d’oro simbolo del bitcoin. A seguire si è catapultati in Marocco con Copies récentes du paysages anciens di Ra Di Martino, che completa il lavoro sui set cinematografici abbandonati. Quindi dal Marocco alla Colombia, Danilo Correale ci prende per mano in un percorso del tutto antropologico, che dalla musica alla parola ri-legge il suono come mezzo politico, sociale, culturale di mantenimento dell’identità dei popoli.
Si può poi decidere di cambiare sala e qui Anna Franceschini, Diego Marcon e Federico Chiari che insieme hanno fondato Piccolo Artigianato Digitale, con Pattini d’argento seguono da vicino gli allenamenti delle Hot Shivers, squadra milanese di pattinaggio artistico su ghiaccio, durante il loro ritiro estivo, in una narrazione muta che sfora oltre il documentario. È invece poi la volta di un vero documentario o quanto meno di un frammento spiato al Cantiere Expo, come Francesco Fei decide di chiamarlo. O, ancora di un lentissimo lungometraggio, come lo definiscono gli stessi artisti Giacomo Sponzilli, Gabriele Silli e Carlo Gabriele Tribbioli, in cui l’attenzione va a perdersi nei dettagli di ogni inquadratura in una narrazione che, dislocata tra Rotterdam, Tokyo e Fès, descrive, a partire dall’esperienza personale dei tre, il paesaggio e le sue trasformazioni umane e urbane.
L’esperienza può essere presa in due modi: o ci si sente di fronte all’opportunità unica di godere di un panorama vastissimo dell’arte contemporanea italiana, ci si sente spettatori privilegiati di un archivio appositamente selezionato da una ricerca evidentemente accademica e ben fatta; o se ne esce nauseati. Se si varca, in realtà, il limite temporale fisiologicamente consentito dal nostro corpo a stare di fronte ad immagini in movimento tanto schizofreniche, si rischia di passare da uno stato all’altro in pochissimo tempo.
Ad ogni modo il progetto è prezioso per studenti e studiosi, ma come capita sempre più spesso nei musei e ormai da diversi decenni, si gira attorno a qualcosa che si cerca la legittimità di definire, vige l’ansia da prestazione, la necessità di contaminare ma al tempo stesso alleggerire, di numerare, catalogare ma al tempo stesso liberare, di stupire ma con piena autorevolezza, senza mettere in conto alcun rischio.
Insomma, sì, è evidente che siamo in un momento storico in cui è necessario interrogarsi sui formati e non è più così necessario invece farlo sui linguaggi, in cui si vive sempre sul confine di molteplici identità e pratiche, in cui laddove un’opera pecca di contenuto vale per il suo contenitore e viceversa, ma questa contaminazione forzata, questa penalizzazione dell’opera in quanto opera d’arte, non denuncia e alimenta al tempo stesso uno stato di confusione, soprattutto a discapito dell’arte stessa e della sua fruizione?
Perchè non posso andare al museo e aspettarmi semplicemente una mostra e andare al cinema e aspettarmi semplicemente un film? Certo è interessante contaminare gli spazi, ma qual è il fine? Insomma, l’opera ne viene veramente favorita e lo spettatore veramente arricchito?
Il museo non dovrebbe essere la casa dell’opera, quel luogo sacro dove l’opera trova la sua giusta collocazione, ci viene introdotta, raccontata, viene valorizzata?
È chiaro che stiamo cercando di fornire nuovi supporti alla lettura dell’opera ma forse contaminare le esperienze, quante più possibili, cercare a tutti i costi la forma più facile e riconoscibile (che poi è alla base dell’intrattenimento), lo stratagemma che sazi la fame di novità, quantità, facilità, di un pubblico sempre più abituato e pigro, non è la strada giusta. Non tutto può avvenire ovunque, non tutti i formati sono interscambiabili, occorre fare uno sforzo di adeguamento, di trasformazione, ragionare su formati che favoriscano la lettura dell’opera e non l’appesantiscano.
Se è evidente che è in corso un problema rispetto ai formati, che si cerca di spostare là quello che prima era qua, di mescolare linguaggi, talvolta appiattendoli e omologandoli, di garantire sempre una chiave di lettura originale di quel che semplicemente esiste ed ha valore in sé in quanto opera d’arte, se è vero che ci battiamo contro ogni definizione e categorizzazione forse occorre fermarsi prima, fermarsi all’opera e cercare di mostrarne le virtù, il suo esistere unico e difendibile, forse occorre star fuori da questa grande confusione che inevitabilmente ci porta questa sovraesposizione costante a immaginari ed esperienze, forse occorre difendere lo spazio di discorso che l’opera genera, dove nasce, dove si forma, dove incontra il mondo.
Se il film può stare dentro una mostra perchè in se stesso si esaurisce, forse l’opera no, l’opera d’arte ha un suo spazio di lettura, godimento, un suo spazio relazionale, che non ci dobbiamo dimenticare.