A cosa serve?

Testo di presentazione dell'opera "Urban Jungle" di Iza Rutkowska per il Palazzo della Cultura e della Scienza di Varsavia

A chi lavora con gli artisti, ovvero a chi non è artista ma lavora per difendere l’artista e l’arte, a chi, cioè, si occupa di preservare la gratuità e la non utilità dell’opera e dell’intervento artistico nella globalità di tutti gli interventi che l’uomo impone alla e nella società che si è costruito e in cui vive, a chi dunque si trova a fare da arbitro tra il volere spesso capriccioso dell’artista e il contesto in cui il suo lavoro si cala, a garantire gli accessi, a preparare il terreno, a raccogliere e restituire il valore di opere non sempre per forza azzeccate, a generare occasioni e possibilità per produrre nuove creazioni consistenti o effimere, memorabili o semplicemente in transito, a noi, a quelli che si chiamano curatori, direttori, critici, mediatori, viene spesso il dubbio su cosa serva questo lavoro.

Nel suo saggio Public Space in a Private Time l’artista americano Vito Acconci scrive:

Lo stabilire, in una città, che un certo spazio è “pubblico” significa farsi un promemoria, porre un avviso, sul fatto che il resto della città non lo è. New York non appartiene a noi, né Parigi, né Des Moines. Istituire uno spazio pubblico significa mettere da parte uno spazio pubblico. Lo spazio pubblico è uno spazio nel bel mezzo della città ma isolato dalla città.

(In English: The establishment of certain space in the city as “public” is a reminder, a warning, that the rest of the city isn’t public. New York doesn’t belong to us, and neither does Paris, and neither does Des Moines. Setting up a public space means setting aside a public space. Public space is a place in the middle of the city but isolated from the city.)

L’arte di regime faceva questo. E molti degli abitanti di Varsavia sentiranno in questo modo un monumento storico come il PkiN, ovvero il Palazzo della Cultura e della Scienza regalato alla città da Stalin dopo l’annessione della Polonia al progetto dell’Unione Sovietica di un blocco comunista stabilito col Trattato Varsavia, di ambigua amicizia ma di effettivo dominio.

Un palazzo che ancora brucia perchè simbolo di una storia recente, come in Italia poteva bruciare il complesso dell’EUR, dopo la guerra, e come non brucia più un monumento come San Pietro, simbolo dell’imponenza e del dominio della chiesa cattolica sul nostro paese, sulla sua storia e soprattutto sulla sua cultura. Oggi ne rimane il pregio artistico e l’unicità di un patrimonio.

È il tempo che traduce l’evento nella sua immagine, la storia in mito.

La storia passa, gli edifici restano.

Si tratta di edifici che altro non sono che immense opere di quella che oggi si chiama “arte pubblica” e non più arte di regime. L’arte pubblica nasce infatti come arte commissionata, pagata e voluta dall’istituzione per valorizzare il proprio territorio, mandare certi messaggi, istituire e improntare una certa estetica. Nasce come arte non libera, nel senso che l’artista operava più o meno consapevolmente entro i limiti del consenso.

Nel tempo le cose sono cambiate. Gli artisti si sono presi, anche illegalmente, i propri spazi di libertà dove incontrare e dialogare con un proprio pubblico. I privati, facoltosi, sempre di più si sono intrufolati nelle scelte che dovevano essere dell’amministrazione pubblica. Fino a creare un disfacimento ormai evidente dei confini tra le due sfere. Lo spazio “pubblico” oggi, pensiamo ad una piazza, è ormai contaminato da immagini, immaginari, informazioni, inviti, edifici e spazi virtuali, di provenienze e intenti disparati. Ed è soprattutto la fruizione che è cambiata, l’attraversamento, i mezzi con cui farlo, lo sguardo, reale e virtuale, il raggio visivo che si amplia e si restringe continuamente, le relazioni molteplici, mute e a gruppi o dialogiche e mirate. Teorizzando questo cambiamento dei luoghi “pubblici” laddove l’intervento artistico deve mettersi a confronto con una precisa “specificità del luogo” lo storico dell’arte James Meyer, nel suo Functional Site all’inizio degli anni Duemila, li definiva “siti” allegorici (non a caso attinge al paradigma informatico) dove, accanto allo spazio fisico, si stratificano altri spazi, astratti, virtuali, si insinuano informazioni, testi e immagini, che mettono in moto una lettura multipla e complessa che necessita della conoscenza di molti diversi linguaggi.

Urban Jungle di Iza Rutkowska è un’opera d’arte pubblica a tutti gli effetti. Commissionata dalla città, in collaborazione con la Fundacja Form i Kształtów (fondata dall’artista quattro anni fa per proprio per realizzare progetti d’arte pubblica in dialogo con altre realtà cittadine e non solo), per un palazzo storicamente connotato, decisamente visibile da chiunque passi di lì, dunque in dialogo con la sfera pubblica a livello sia urbanistico che sociale. Di dimensioni degne, anzi, maestose.

Chiunque passerà di lì, chiunque ne vedrà delle foto, chiunque ne leggerà su facebook, assisterà ad una messa in scena. La città col suo palazzo storico e gli edifici attorno, gli alberi, i viali, fungeranno da scenografia di un fatto che è in atto. È la presenza di quel serpentone, come di una gazza su un comignolo, o di un palloncino incastrato in un cancello a far accadere qualcosa. Basta un gesto, un piccolo spostamento a fare la scena, a dar vita ad un quadro che prima ci appariva statico ma che subito può mettersi in moto e raccontarci una storia.

La storia non è detta, non è scritta, non ne abbiamo certezza, non sappiamo cosa ci vuole esattamente dire, ma è lì, si impone, ci chiede attenzione, sposta il nostro sguardo, ci regala una vista sull’edificio del tutto inedita. Ora, il serpente è certamente un animale simbolico, e la sua forma, per come ce la presenta l’artista è giocosa, strabiliante, strizza l’occhio a grandi e piccoli, ma che ne sappiamo di più? La storia rimane privata, ma al tempo stesso entra in dialogo con la comunità che assiste. Lo spazio privato, la creazione, la scelta e la visione dell’artista entra violentemente nel raggio visivo pubblicamente accessibile. Dallo spazio protetto del museo o della galleria e dal suo pubblico preparato, l’artista si dirige verso uno spazio in cui l’opera non gli appartiene più e diventa visione collettiva. Tuttavia ancora le appartiene, è la sua storia che le appartiene, l’origine da cui l’opera nasce. È l’opera il terreno comune su cui accade l’incontro, su cui nasce il dialogo, su cui gli sguardi si incrociano, non la sua storia. E l’opera è a metà strada, tra chi la fa e chi la vede. È quel ponte sotto cui passano flussi e correnti di entrambi.

Ecco, se esiste una replica alla domanda di partenza forse consiste in questo: interrompere uno sguardo sicuro, interrompere certezze, linearità di vedute e paesaggi, l’andamento regolare di un tempo, la ricerca ossessiva di risposte.

A differenza del passato quando si ergevano monumenti per assicurarsi consenso, oggi l’arte continua sì a preservare lo stupore e la meraviglia, ma genera prima di tutto il dubbio.

A chi si trova dunque a difendere il dubbio, alle stesse persone di cui sopra, ai curatori, direttori, critici, mediatori, che si trovano a lavorare tra l’opera e il suo pubblico viene spesso posta la stessa domanda: a cosa serve?

…Possibile che non ci sia niente in vendita? Che non sia la pubblicità di un evento, di una manifestazione, di un incontro politico? Possibile che non abbia un seguito, che non ci insegni o ci voglia comunicare qualcosa? Che non ci siano regole che ci dicano come giocare, guardare, muoverci, spenderci un po’ di tempo libero? Possibile che non me la possa portare a casa? Possibile che non la possa comprare? Possibile che non serva propria a niente?

Ma perchè l’ha fatta?

Ecco. È questa domanda che dobbiamo difendere, dobbiamo difendere l’impossibilità di darle una risposta, difenderla dalla necessità di una giustificazione, far sì che continui a non servire a niente. Difendere questo piccolo spazio di libertà.