La Thailandia, tra le prime mete esotiche ed erotiche degli italiani, ormai la conosciamo tutti. Il solo nome evoca un certo paesaggio, certi volti, certe cose da fare, per lo più di svago e di shopping. «Quest’anno vado in Thailandia…torno in Thailandia…ho comprato casa in Thailandia…ho sposato una thailandese»…
Tanto che ormai non ci possono più vedere né ci trattano più con la fascinazione o la curiosità di prima. Abbiamo addirittura perso il ruolo dei “turisti porta soldi”…ora, semmai, il turista italiano è quello che ritorna, sempre nello stesso posto, portando le magliette che non usa più per i ragazzini del posto, facendo regali dall’Occidente un po’ come fosse l’amico dello zio d’America…quando, in realtà, cosa abbiamo a che fare noi con questo popolo? Ben poco. Tranne, appunto, averla scelta come meta di incontro con l’Oriente, con un Oriente che oggi abbiamo non è più così esotico, che abbiamo accanto, ogni giorno, sul bus, al ristornate, nelle vetrine dei negozi, per strada, un Oriente di cui riconosciamo il suono della lingua, l’odore, il modo di vestire e quello di pettinarsi. Chi c’è stato avrà senza dubbio in memoria l’immagine dei ragazzi in ciabatte e calzoncini con il ciuffo di capelli stirati davanti mentre dietro all’insù, gli orecchini e le catenine al collo, i cellulari sempre in mano. Niente di troppo orientale a dire il vero, che tuttavia è distante anni luce da noi, dai nostri comportamenti, abbigliamenti, divertimenti. Un mondo diverso, uno stare diverso, un convivere diverso. Normale, lineare, originario, primitivo. Primitivo come qualcosa da preservare, preservare il luogo come una comunità agricola, dice Apichatpong Weerasethakul.
Apichatpong Weerasethakul è infatti l’artista che ha realizzato Primitive, all’Hangar Bicocca di Milano, un progetto espositivo (in mostra soltanto fino al 28 aprile!) oltre che filmico, nato già nel 2009, che ci porta esattamente lì, che ci fa entrare in quel territorio semi-conosciuto per portarci laddove non siamo stati pur attraversando luoghi e umori ben noti.
L’ho chiamato artista ma forse potevo anche chiamarlo regista, essendosi portato a casa una palma d’oro al Festival di Cannes nel 2010. Ma anche del regista ha ben poco. Nel suo lavoro c’è così tanto di vitale, nel senso che deriva dalla vita, e così poco di artificiale, nel senso che costruisce una finzione, che mi verrebbe quasi da azzardare l’ipotesi che se provasse a rifare un film tale e quale forse non ci riuscirebbe.
Ad ogni modo possiamo chiamarlo “Joe”, per stare sul sicuro, nome con cui si fa chiamare, forse venendo in soccorso anche alla gravosa pronuncia del suo nome…
Primitive nasce prima di tutto da un viaggio, anzi, da un vero e proprio pellegrinaggio che Joe ha compiuto alla ricerca dello zio Boonmee in una regione al Nord della Thailandia. Boonmee non è uno zio vero, o forse sì, comunque è un personaggio di cui Joe viene a conoscenza un giorno grazie a un monaco che lo omaggia di un libro che racconta la sua storia. Si tratta della storia di un “vecchio” (chiunque se lo immaginerebbe vecchio…) che si ricorda le sue vite precedenti, così come recita il titolo del suo film premiato a Cannes che Joe realizza dopo il fatidico incontro (Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives, 2010).
Il progetto multipiattaforma dell’Hangar ci porta subito dentro a questa storia. Seduti, anzi proprio distesi, sui morbidi cuscini porpora che ci accolgono di fronte a Primitive, al buio di una sala a più schermi, sono dei ragazzi thailandesi a parlarcene, o forse no, a sognarne, o, no, magari ad ascoltarne la lettura…in realtà non importa, perchè dentro quel mondo sogno, discorso e ascolto si equivalgono, vero e falso non esistono, spirito e materia si completano. I momenti di sogno si alternano a quelli di veglia e di gioco, mentre la luce giunge solo nel tentativo di mostrare il buio.
Ghosts will appear under certain conditions, when it is not quite light and not quite dark (at the break of dawn and at twilight) da “Cujo” (edizioni Zero, 480 pp, Milano, 2009. volume in mostra)
«Temo sempre che un giorno aprendo gli occhi non vedrò niente»…dice la voce fuori campo…di che parla? Qual è questo timore? È il timore di non vedere più la propria storia o di non vedere più il proprio futuro?
Un connotazione di Primitive è il modo in cui un posto rimane fermo nel tempo e non progredisce…il ricordo brutale che permane. (Joe)
Nabua, il villaggio in cui è ambientato tutto il progetto, è al confine con il Laos e gode di una sua memoria precisa, “brutale”, quella di un ventennio di dominazione fisica e psicologica sulla comunità contadina locale da parte della dittatura militare al governo, finita, se così si può dire, negli anni Ottanta. Ora è la “città vedova”, vedova di uomini, quegli agricoltori costretti a rifugiarsi nella giungla…
Che fine fanno le nostre storie, la nostra storia? Quale memoria rimane? Quali ricordi sono vittime dell’oblio?
Che il futuro sia in quella navicella un po’ metafisica e fantascientifica…? quella caverna, quell’antro, quell’utero? È lì che si depositano le storie, la memoria? Per andare dove…?
…Joe asked me to record anything that I could remember about my past. I found though that we tend to forget so much, even from our present lives, let alone any past ones. (da “Cujo”, cit.)
Siamo nell’agosto del 2551, ma in realtà la mostra inizia ai giorni nostri…
Gli stessi ragazzi infatti li incontriamo già prima, nel video che fa da porta d’accesso, mentre ballano e cantano I’m Still Breathing dei Modern Dog, una band thailandese molto popolare che Joe ha invitato a suonare dal vivo con loro, lì, a Nabua, come probabilmente non sarebbe mai accaduto.
Fa da sfondo quella campagna, quei sentieri, quella luce che probabilmente ognuno di noi sta sognando in questo momento. È il sogno di un futuro? In realtà quello è il tempo presente, quello di ora, quello sospeso, un tempo magari utopistico, che non deve essere per forza high tech ma che riguarda una comunità basata sull’agricoltura (Joe). È il tempo in cui vivono quei teenagers del nord della “terra degli uomini liberi” ancora oggi costretti a fuggire, se non nella giungla vera, in quella delle grandi città o dei grandi paesi come Corea e Singapore (…dice Joe).
Quella canzone parla di quel tempo presente di come bisogna continuare a muoversi e ad essere piuttosto ribelli, ogni giorno nella semplicità e nella libertà di ogni azione.
Il tempo di quella cultura è un’altra cosa, non ha niente a che fare col tempo “occidentale”. Chiunque ci sia stato sa che le giornate sono scandite dal clima e dalle faccende da sistemare più che dal lavoro o dalla famiglia. É il tempo della pioggia che ti coglie all’improvviso, della strada che si trasforma in fango, della semina nelle risaie con i tempi di attesa delle varie fasi di raccolto, è il tempo del sole, della legna da tagliare per edificare, della partita di calcio, del giro in motorino, dei trasporti su ruota, del programma in tv, dei doni ai monaci. Un racconto di vita catturato nei 28 minuti di Making of the Spaceship dove il tempo presente, appunto, è scandito dalla pratica di costruzione di uno strano oggetto, quella stessa navicella in cui i ragazzi custodiranno i loro sogni.
Al centro della sala, questo lavoro, che possiamo forse chiamare documentario (ecco che Apichatpong Weeraesatakhul diventa anche un documentarista…), è il ponte d’accesso a quel mondo dove il lavoro convive senza stridore con l’alchemico. Potresti stare ore a guardarli, a spiarli, ed è da qui che si può partire e ripartire il giro. Da qui puoi tornare a sdraiarti di fronte a Primitive, o immergerti nella finzione di A Letter to Uncle Boonmee, o accompagnarli per una partita di calcio notturna illuminata da un lampione al neon e da una palla di fuoco (Phantoms of Nabua).
A Nabua, dopo esserci vissuto, il fuoco diventa un elemento forte. Si usa per ripulire la terra dopo la mietitura e si racconta di come le case venissero incendiate, come di molte altre cose legate al passato…(Joe)
Nabua brucia. Brucia due, tre volte, brucia ancora. Brucia il telo su cui è proiettata incendiata alla fine della partita di calcio e continua a bruciare in un gioco di lampi perpetuo nello stesso film, che chiude la mostra.
Il video Nabua forza l’idea di fine mostra e di chiusura dello spazio. Il colophon è fuori…è un’idea di arte che esce verso il mondo ma è anche un’idea di circolarità e non chiusura tipica della cinematografia di Apichatpong…La scelta (all’Hangar Bicocca) è stata di impostare un anno di mostre su artisti che manipolassero spazio e tempo, in particolare, nella loro percezione, dando vita ad una sorta di museo del tempo alterato. (Andrea Lissoni, curatore della mostra e dell’Hangar Bicocca)
Tra i suoi riferimenti Apichatpong Weeraesatakhul cita il cinese Edward Yang e l’iraniano Abbas Kiarostami, ma anche Fellini, Cassavetes, Warhol e Kubrick…non dimentichiamo la sua formazione a Chicago a contatto con la cinematografia americana sperimentale degli anni Novanta…dunque aspettiamo di incontrarlo ancora al cinema oltre che al museo.
Tuttavia l’autonomia da una struttura precisa, il gusto di un linguaggio che gira attorno alla storia più che rappresentarla, la necessità di entrare in consonanza con i soggetti che decide di coinvolgere, spingono il suo sguardo oltre ogni chiusura.
Volevo solo catturare la vita filmandola. Non so bene a cosa miravo quando ero lì. Spero ne sia uscito un modo onesto di rappresentare l’esperienza e i sogni degli adolescenti. (Joe)
Prima di vedere la sua foto lo immaginavo un fantasma in volo tra gli alberi di banane, un po’ come come lo spettro che si aggirava nel parco Karlsaue di Kassel a Documenta 13. In realtà non ne è molto distante…con i suoi sarong bianchi e lo spiritello magico canino che non lo abbandona mai, lui e il suo amico…non insegnano così i monaci buddisti?