Ciò che mi straniva erano le sue domande. Mi disorientava la semplicità con cui affrontava la sua situazione, attraverso domande che io non riuscivo neanche a pensare. E come rivendicava senza timore le risposte, ostinata, senza tregua, senza darle mai per scontate, senza piegarsi mai al loro sapere. Al sapere di medici e ostetriche che lì, in fila, in piedi, erano chiamati da lei a mettere in dubbio ogni certezza, a piegarsi al suo volere, a quell’altra possibilità che ogni volta chiamava in causa. Mi ha stupito l’onestà con cui ha reclamato per tutto il tempo i suoi bisogni, il suo bisogno di essere ascoltata e curata, e la durezza e il cinismo nei confronti di chi, come me, le stava attorno.
Per la prima volta mi sono sentita a mio agio con a lei, senza bisogno di fingere.
“Che bella che sei, che bello sarebbe stato il tuo bambino…” L’ho pensato, l’ho scritto, l’ho pianto, mentre lei mi guardava con la faccia di pietra dal suo stare orizzontale.
Lì ho conosciuto per la prima volta la sua forza, la forza di una madre costretta a un parto prematuro, la lotta contro un figlio, la lotta insieme a un figlio che non conosci. Una madre informata della morte di suo figlio ma testarda fino a farlo nascere vivo. Ora gli sta accanto, ogni giorno, sta accanto a quella scatola di vetro, sognando il giorno in cui potrà portarselo a casa, ma questa volta senza riuscire semplicemente ad ammetterlo. Ora che non è più solo nelle sue mani…Finalmente spaventata, ancora arrabbiata, forse con lui, con me, con noi, di sicuro con se stessa…