In quel bacio dove nasce l’orizzonte

Il testo "In quel bacio dove nasce l'orizzonte" è un contributo alla pubblicazione Giovanni Ozzola, "Fallen Blossom", a cura di Davide Ferri, Gli Ori, 2018

In quel bacio dove nasce l’orizzonte

Guardare l’orizzonte ha un fascino arcano.
L’orizzonte è l’ultima destinazione dello sguardo, il grado ultimo della visibilità, il punto in cui la nostra visione si arresta.
Quando si sale su una montagna, su una torre, su un tetto…è la possibilità di allungarsi a un orizzonte ancora più lontano che ci seduce.
Destinazione dell’occhio e non del corpo esso esiste non in quanto meta fisica bensì visiva.
Esso richiede allo sguardo di attraversare una distanza tra il corpo e la vista. L’orizzonte è un luogo che contiene tutto ciò che accade prima, che ci accoglie come il proscenio di un teatro.
L’orizzonte è distanza. L’orizzonte è una distanza che ci proietta oltre, una forza che ci risucchia in una direzione precisa, definendo le coordinate del nostro sguardo.

La prospettiva rinascimentale ha inventato una rappresentazione di questo spazio di distanza tra chi guarda e il punto più lontano della visione. Ha definito il “punto di fuga” includendo in questa definizione proprio un’azione di movimento per cui l’occhio fugge, corre lungo traiettorie che organizzano con ordine tutto lo spazio dell’immagine. L’arte moderna, poi, ha fatto di questo tema un punto forte di rottura, liberando l’immagine dalla necessità di quell’ordine prestabilito e mettendo in discussione i piani per portare l’attenzione sempre più sulla superficie, su dettagli e impressioni, pennellate ed effetti, fino a sdoganare la possibilità di una non-rappresentazione, in quella che definiamo generalmente “arte astratta”. La modernità ha riportato tutto all’immediata prossimità dello sguardo, l’orizzonte è diventato il quadro stesso.
La fotografia, tra le conquiste della modernità, ha rimesso insieme le due visioni, ordine e disordine, prossimità e distanza. Una fotografia è una finestra che ci fa correre lungo le profondità della realtà, ma vive al tempo stesso dell’intensità della superficie, della sua vincolante bidimensione, di una lettura destra-sinistra e alto-basso che trova però intervalli di attraversamento.
E’ compito esatto del fotografo attivare forze interne all’immagine affinché la lettura della superficie incontri traiettorie di penetrazione.

Le immagini cui ci pone davanti Giovanni Ozzola sono esattamente questo, luoghi da attraversare volgendo lo sguardo a un orizzonte. Il piano ravvicinato che sta addosso a chi guarda, la stanza o il paesaggio in cui ci si trova, la preziosità dei dettagli, invitano lo sguardo a non sostare, ad allungarsi oltre, a un piano ulteriore, fino al suo massimo grado, trasformando l’esperienza della visione in quella dell’attraversamento e la contemplazione in trapasso.
L’immagine diventa luogo della distanza, sguardo verso un orizzonte, un’immagine da leggere da qui, di fronte ad essa, a là, oltre ciò che si guarda. In essa è viva una tensione che ci conduce verso un punto di destinazione che non si trova in superficie ma va proiettato oltre l’immagine stessa.
Il soggetto diventa luogo di transito, un pretesto per generare un viaggio.

Questa piccola urna, dal titolo Sedimenti-memorie, con il tesoro che racchiude, è dunque un varco da attraversare. La luce che ne proviene non definisce profili, non è lì per far emergere le forme dal buio, al contrario, per far sì che lo sguardo passi oltre. E’ un richiamo ad un qualcosa che sta avvenendo al di là di quel vetro che offusca le sagome, qualcosa di vivo, rispetto alla natura morta che ci troviamo di fronte. Più che un omaggio alle bottiglie di Giorgio Morandi diventa dunque uno still life (e penso qui anche alla serie di Still Life di Luigi Ghirri) che confina quel “quadro” a un suo spazio. Immerso in un’oscurità non giustificata non ci è concesso di approfondirne i toni o di studiarne gli equilibri compostivi, non siamo invitati ad immergerci in un’atmosfera. La cornice di buio così come il ricciolo di un’antica sedia in primo piano ci tengono allertati, ci rendono consapevoli della nostra posizione di spettatori definendo con precisione i vari piani dell’immagine.
Da qui a lì, anzi a laggiù, oltre quel vetro, oltre quel quadro, questo scatto crea uno spazio da percorrere, non più sulla sua superficie ma penetrando la sua profondità. Dalla sagoma in evidenza che dall’ombra emerge solo dopo un primo sguardo, dal fuoco centrale di quel vetro, l’immagine prende un’altra forma, si allarga e si organizza per risucchiarci laggiù.
Non è lì, al centro, che ha luogo l’accadimento cui siamo invitati ad assistere, bensì oltre quel quadro, laddove un colpo di luce incontra una macchia scura e in quel bacio fa nascere un orizzonte.

Improvvisamente il nostro sguardo si distrae dai vasi e viene catturato da quell’istante di luce che dall’alto arriva a benedire una scena che non ci è dato vedere.
Sedimenti-memorie è per me un’epifania.
Rivolta a un altare carico di ornamenti, quasi prendessi parte a un rituale iniziatico al cospetto di una mensa sacrificale su cui l’immagine viene immolata, una forza interna mi conduce verso un nuovo viaggio che mi distrae da ciò che immediatamente riconoscono per farmi innamorare di quell’ignoto che all’orizzonte posso solo indistintamente percepire.

Ogni immagine che si deposita allo sguardo è immediatamente passata a favore di un presente che si rinnova. Ogni immagine scandisce il passare del tempo. E la fotografia nasce proprio per questo, traslare la memoria del reale. Ogni immagine fotografica sacrifica tutto ciò che le sta attorno, diventando un frammento astratto e sospeso ma consegnandosi al tempo come fonte d’azione che fa avanzare, traghettare, trasmettere, la memoria. Qui assistiamo proprio a questo processo di trapasso del tempo, e laddove, laggiù, la luce viene nuovamente catturata, nasce un nuovo orizzonte incerto.
Ogni scatto, nel lavoro di Ozzola, è un invito a sporgersi fino a là. Quel racconto che ha inizio dietro di noi, quando la sedia non è più visibile, ci transita verso una nuova destinazione, uno spazio sacro e divino, insondabile. Sedimenti-memorie è un valico in cui il tempo si consuma nel corso di uno sguardo. E in quello sguardo l’immagine immortalata si immola al tempo lasciando l’unica via di fuga laggiù dove l’orizzonte si consuma. In mezzo tutto è già accaduto, eppure è lì sotto il nostro sguardo, e accade nuovamente.

La Fondazione Remotti.

sulla possibile collaborazione tra pubblico e privato in dialogo col territorio.

Quella della Fondazione Remotti è una programmazione a quattro mani, due pubbliche e due private. Lo conferma Francesca Pasini, direttrice artistica, che sostiene l’importanza dei “reciproci coinvolgimenti”, tra pubblico e privato. “La collaborazione è nata in maniera quasi scientifica” dice la direttrice: l’ingegnere Remotti, occupandosi della ristrutturazione del Convento delle Gianelline, ha infatti proposto al Comune di adempiere agli oneri di urbanizzazione corrispondenti alla restrutturazione attraverso la fondazione di un centro d’arte contemporanea mettendo a disposizione di tale fondazione la sua stessa collezione. “É un caso fortunato, forse possibile anche grazie alla dimensione ridotta di una città come Camogli, però dovrebbe essere un processo normale nei casi di grandi imprese edilizie. Qui ha funzionato perchè un privato ha avuto la volontà di fare questo tipo di proposta e il Comune la predisposizione ad accoglierla.” (Pasini)
Un doppio merito dunque che rende possibile oggi, ormai da tre anni, l’attività di un centro d’arte che, a Camogli, conta più di 3000 visitatori l’anno.
Il programma è spartito tra attività proposte dall’assessorato alla cultura del Comune (30%) e attività proposte dalla Fondazione (70%), di cui è presidente Natalina Remotti, ma gli intenti non sono diversi e sono rivolti a valorizzare l’identità di quel luogo e di quel territorio.
Fin dall’inizio Francesca Pasini sceglie, assieme alla famiglia Remotti, di caratterizzare gli spazi dell’ex convento affidando ad artisti internazionali opere che valorizzino le parti classiche della struttura della chiesa: così la parete dell’altare è affidata ad Alberto Garutti; la balconata interna e il sagrato al Gruppo A12; la facciata a Miche­langelo Pistoletto; le capriate a Tobias Rehberger e il pavimento del piano terreno a Gilberto Zorio.
Ed è grazie a queste opere, alcune strutturali, altre estetiche, che gli spazi della fondazione diventano una meta sempre interessante per il visitatore di passaggio come per i cittadini stessi, un luogo da visitare, dove spendere il proprio tempo, mai vuoto, bensì in grado di essere percepito come identità e patrimonio del territorio. Sull’identità locale punta anche parte della programmazione stessa, con progetti quali il Premio Skiaffino, omaggio all’autore e disegnatore satirico di Camogli Gualtiero Schiaffino, o l’invito a Gianni Berengo Gardin per un lavoro fotografico interamente dedicato alla città, poi esposto in mostra accanto ad altri suoi capolavori.
Mentre una ricchezza esclusiva è costituita dalla collezione trentennale della famiglia Remotti da cui ha origine la fondazione stessa e che viene esposta al pubblico tramite mostre che mettono in dialogo le opere che la compongono tra di loro o rispetto a un tema da discutere. “Come per tutte le grandi collezioni non c’è un ordine, bensì l’intuizione e la capacità di previsione – risponde Francesca Pasini interpellata sulla collezione – Specialmente in questo caso, credo ci sia un’attitudine molto forte, una prontezza nell’individuare opere prima che diventino riconosciute. Ci sono acquisti di opere di artisti nazionali e internazionali fortemente in anticipo, ma accanto a questo permane l’eclettismo del collezionista.”
Da un gruppo di opere della collezione nasce la mostra collettiva Donne donne donne, che inaugura il prossimo 26 novembre e rimane aperta fino al 18 marzo 2012: “Mi interessava documentare in modo radicale un dato di realtà – commenta ancora la Pasini – ovvero come le donne artiste, a un certo punto, all’inizio degli anni Novanta, diventano un nucleo importante all’interno di una collezione privata nata negli anni Settanta, tanto da permettermi di fare una mostra su di loro…questo è il mio concetto, questa è l’idea della mostra.”
L’inaugurazione, nell’ottica di un atteggiamento aperto alla contaminazione dei linguaggi che caratterizza, anch’esso, la Fondazione, è preceduta, alle 18.30, dalla prima nazionale dello spettacolo Le serve di Jean Genet, diretto dalla giovane regista genovese Emanuela Rolla (con Emanuela Rolla, Margherita Remotti, Gabriella Fossati, produzione Performer-Espressione Applicata.). Al termine dello spettacolo la mostra si apre con l’opera Not for you di Monica Bonvicini (acquisita nel 2006 e mai presentata in questa forma), una scritta di mole scenografica che, accesa da un centinaio di lampadine, introduce alle altre opere creando un dialogo a tutto tondo tra teatro e arte. “Grazie al semplice gesto di accendere le luci, quest’opera mi permette di creare una connessione. Not for you è un messaggio che ha a che fare col riconoscimento del ruolo delle donne nel mondo della cultura ma allo stesso tempo rimanda anche a una questione più profonda che riguarda ognuno di noi, il sentirsi partecipi e accolti, oppure respinti rispetto a qualcosa che, appunto, capisci, non è per te.” (Pasini)
In mostra anche opere di Marzia Migliora, Paola Pivi, Sylvie Fleury, Katharina Fritsch, Florence Henri, Candida Höfer, Hannah Starkey, Laurie Simmons, Christine Erhard, Janieta Eyre, Chantal Joffe, Dacia Manto, Tracey Emin, Annette Messager, Anna Gaskell, Raffaella Nappo, Paola Mattioli, Ann Lislegaard, Moira Ricci, Silvia Levenson, Liliana Porter, Traslochi Emotivi.

Difetti del sistema.

sulla mostra "Glitch. Interferenze tra arte e cinema" al Pac di Milano

Da qualche tempo la sovrapproduzione di audiovisivi in arte, o di quelli che vengono comunemente detti video d’artista, ci sta mettendo in forte difficoltà, noi spettatori ma anche gli artisti. Gli artisti perchè con l’avanzare della tecnologia e soprattutto con una sempre più ampia accessibilità ai mezzi si trovano a poter sperimentare qualsiasi cosa e ad azzardare dunque qualsiasi qualità e alterazione dell’immagine, o, dall’altra parte, perchè si trovano a doversi confrontare con produzioni di tipo cinematografico e a lavorare con direttori della fotografia, produttori esecutivi, tecnici del suono e così via…che confezionano un prodotto di quel tipo lì, appunto cinematografico, con cui poi devono fare i conti. Gli spettatori perchè, abituati fino a poco tempo fa a pensare il cinema sul grande schermo, non sanno come porsi di fronte ad un altro tipo di schermo, spesso un muro con una proiezione, a volte un monitor, altre un supporto speciale e così via…o, ancora, non sono preparati a vedere mostre in cui di video ce ne sono più di uno e, anzi, spesso talmente tanti da non avere il tempo fisiologico per vederli tutti. Disagio che viene incrementato dal tempo, dalla durata di ciò a cui si assiste, dall’imbarazzo di fronte a qualcosa di già iniziato o che non si sa quanto dura, che non si sa da che parte guardare, da una posizione inadeguata, spesso in piedi, distratti da mille altre forme circostanti, insomma tutt’altro che al cinema.
Eh già, perchè l’arte è arte e il cinema è cinema.
L’invasione di campo che c’è stata recentemente, soprattutto della prima nei confronti della seconda, sta aprendo non solo questioni, ma forse anche veri e propri problemi di lettura.
A mostre importanti, ricche di opere, contenuti, punti di vista, angoli di osservazione, rimandi a processi in corso o già avvenuti…mi è capitato di trovare nel video un rifugio sicuro. Bene, meno male, ecco un video, so come si fa, so come si guarda. Mi siedo, quando c’è la sedia, e guardo, qualcosa mi dirà. Eppure quasi sempre al termine della proiezione, quando ci arrivo, mi sembra manchi qualcosa, mi sembra di essermi persa pezzi per strada, mi manca un prima e un dopo. Forse perchè il retaggio della narrazione cinematografica rimane forte o forse perchè l’opera ha semplicemente bisogno di essere accompagnata, da un contesto, da una postura, da una relazione, di lasciare spazio anche a ciò che non è. L’opera d’arte non finisce lì dove la vedi, come un film, si porta dietro pregressi e strascichi dai quali dipende in modo vitale.
Con la mostra Glitch, attualmente in corso (solo fino al 6 gennaio!), il Pac – Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano si è cimentato in una lettura delle produzioni artistiche delle ultime generazioni italiane legate in qualche modo al cinema: Interferenze tra arte e cinema dice il sottotitolo.
Il curatore Davide Giannella ha selezionato circa cinquanta artisti di cui propone anche più di un’opera datata negli anni Duemila, cioè appartenente al panorama degli ultimi quindici anni. La mostra si completa con un ciclo di performance che hanno luogo negli spazi del museo secondo un calendario sempre in progress consultabile sul sito del museo.
Di certo non è né il primo né il solo museo ad occuparsi di tale tema ma rimane interessante e importante l’intento di organizzare la ricerca e la poetica di tanti artisti, anche molto diversi tra loro, secondo le categorie del cinema, di cui lo spettatore, allertato fin dal titolo, inevitabilmente si predispone a servirsi. Ecco ad esempio che le foto di Ra Di Martino del ciclo No more stars / Abandoned Movie Set, Star Wars e Abandoned Movie Props, in cui l’artista documenta i resti ancora presenti nel deserto del Sahara delle costruzioni realizzate per i film di Guerre Stellari e le finte architetture dei film western o di guerra americani oggi abbandonate in qualche piana tibetana, diventano immediatamente quei film stessi e la magia della finzione che gli oggetti di scena si portano dietro, mentre lo sguardo metafisico che su di essi si era depositato da parte dell’artista e l’esperienza di peregrinazione in questi luoghi che ha preceduto gli scatti passa in secondo piano. Così come le scene degli happy ending ritratte da Eva Marisaldi su piccole postazioni a cuscino non sono più ricami ma diventano “caccia al film”. O, ancora l’Anonimatografo di Paolo Gioli, che fin dal titolo ci invita ad uno sguardo intimo e riservato su certi ritratti rubati a pellicole di sconosciuti, e che richiederebbe una relazione ravvicinata, personale e anche una certa fascinazione per la magia di una tecnica di montaggio costruita ad hoc dall’artista stesso, diventa subito film muto d’altri tempi nello scorrere rapido di ritratti e paesaggi che, sconnessi, si inceppano.
La mostra si apre con una serie di installazioni di varia natura che costellano lo spazio su tre livelli. Il rimando al cinema dunque non è immediato come ci si aspetta, ma è subito evidente che quel che si incontra nello spazio non è il nucleo di ciò che siamo venuti a vedere. Zigzagando tra un’opera e l’altra si ha chiaramente l’impressione di star mancando il punto. E infatti il punto è là. Là dietro. Il punto è dietro alle tre pesanti tende di velluto rosso che nascondono le playlist, una per i giorni pari e una per i giorni dispari della settimana. Là dietro si nasconde il rifugio: bene, meno male, mi siedo (perchè qui la sedia c’è eccome) e guardo. L’ambiente vuole essere chiaramente quello del cinema, con file di sedute di fronte ad un grande schermo. Occorre sedersi e guardare. Tutto allo stesso modo. Non sappiamo inizialmente a che punto siamo arrivati e per quanto tempo ci verrà chiesto di stare seduti lì, ma se ci muniamo di un foglio di sala troviamo la lista di tutte le proiezioni, una decina, per un totale di circa 190′, un film lungo. Lo stesso per le altre due sale, per un totale di trenta video al giorno, mettendo in conto che saranno necessari almeno due giorni per vedere tutto o forse tre se non si vogliono spendere oltre nove ore dentro al museo. D’altra parte la ragazza alla reception è la prima cosa su cui ci informa: “L’avviso che la mostra non riuscirà a vederla tutta”.
Se il cinema era già entrato nel museo sotto forma di film, di “sezione cinematografica” di una mostra a tema ad esempio, qui entra decisamente a spazzaneve, lasciando l’arte ai margini e liberando la strada al traffico di immagini. Quel traffico di cui non possiamo più fare a meno, proprio come la strada asfaltata, quello scorrere irresistibile che ci calamita di fronte ad uno schermo, ancora meglio, se grande schermo.
Seduti a questo cinema dentro al museo si assiste allora alla narrazione di un viaggio alla ricerca di Satoshi, che scopriamo essere l’inventore misteriosamente scomparso del Bitcoin, peregrinazione messa poi in scena dal collettivo Alterazioni Video sotto forma del fotoromanzo o Turbo Film (come lo chiamano) Surfing With Satoshi, sullo sfondo di una skin trash blu ufficio su cui roteano monete d’oro simbolo del bitcoin. A seguire si è catapultati in Marocco con Copies récentes du paysages anciens di Ra Di Martino, che completa il lavoro sui set cinematografici abbandonati. Quindi dal Marocco alla Colombia, Danilo Correale ci prende per mano in un percorso del tutto antropologico, che dalla musica alla parola ri-legge il suono come mezzo politico, sociale, culturale di mantenimento dell’identità dei popoli.
Si può poi decidere di cambiare sala e qui Anna Franceschini, Diego Marcon e Federico Chiari che insieme hanno fondato Piccolo Artigianato Digitale, con Pattini d’argento seguono da vicino gli allenamenti delle Hot Shivers, squadra milanese di pattinaggio artistico su ghiaccio, durante il loro ritiro estivo, in una narrazione muta che sfora oltre il documentario. È invece poi la volta di un vero documentario o quanto meno di un frammento spiato al Cantiere Expo, come Francesco Fei decide di chiamarlo. O, ancora di un lentissimo lungometraggio, come lo definiscono gli stessi artisti Giacomo Sponzilli, Gabriele Silli e Carlo Gabriele Tribbioli, in cui l’attenzione va a perdersi nei dettagli di ogni inquadratura in una narrazione che, dislocata tra Rotterdam, Tokyo e Fès, descrive, a partire dall’esperienza personale dei tre, il paesaggio e le sue trasformazioni umane e urbane.
L’esperienza può essere presa in due modi: o ci si sente di fronte all’opportunità unica di godere di un panorama vastissimo dell’arte contemporanea italiana, ci si sente spettatori privilegiati di un archivio appositamente selezionato da una ricerca evidentemente accademica e ben fatta; o se ne esce nauseati. Se si varca, in realtà, il limite temporale fisiologicamente consentito dal nostro corpo a stare di fronte ad immagini in movimento tanto schizofreniche, si rischia di passare da uno stato all’altro in pochissimo tempo.
Ad ogni modo il progetto è prezioso per studenti e studiosi, ma come capita sempre più spesso nei musei e ormai da diversi decenni, si gira attorno a qualcosa che si cerca la legittimità di definire, vige l’ansia da prestazione, la necessità di contaminare ma al tempo stesso alleggerire, di numerare, catalogare ma al tempo stesso liberare, di stupire ma con piena autorevolezza, senza mettere in conto alcun rischio.
Insomma, sì, è evidente che siamo in un momento storico in cui è necessario interrogarsi sui formati e non è più così necessario invece farlo sui linguaggi, in cui si vive sempre sul confine di molteplici identità e pratiche, in cui laddove un’opera pecca di contenuto vale per il suo contenitore e viceversa, ma questa contaminazione forzata, questa penalizzazione dell’opera in quanto opera d’arte, non denuncia e alimenta al tempo stesso uno stato di confusione, soprattutto a discapito dell’arte stessa e della sua fruizione?
Perchè non posso andare al museo e aspettarmi semplicemente una mostra e andare al cinema e aspettarmi semplicemente un film? Certo è interessante contaminare gli spazi, ma qual è il fine? Insomma, l’opera ne viene veramente favorita e lo spettatore veramente arricchito?
Il museo non dovrebbe essere la casa dell’opera, quel luogo sacro dove l’opera trova la sua giusta collocazione, ci viene introdotta, raccontata, viene valorizzata?
È chiaro che stiamo cercando di fornire nuovi supporti alla lettura dell’opera ma forse contaminare le esperienze, quante più possibili, cercare a tutti i costi la forma più facile e riconoscibile (che poi è alla base dell’intrattenimento), lo stratagemma che sazi la fame di novità, quantità, facilità, di un pubblico sempre più abituato e pigro, non è la strada giusta. Non tutto può avvenire ovunque, non tutti i formati sono interscambiabili, occorre fare uno sforzo di adeguamento, di trasformazione, ragionare su formati che favoriscano la lettura dell’opera e non l’appesantiscano.
Se è evidente che è in corso un problema rispetto ai formati, che si cerca di spostare là quello che prima era qua, di mescolare linguaggi, talvolta appiattendoli e omologandoli, di garantire sempre una chiave di lettura originale di quel che semplicemente esiste ed ha valore in sé in quanto opera d’arte, se è vero che ci battiamo contro ogni definizione e categorizzazione forse occorre fermarsi prima, fermarsi all’opera e cercare di mostrarne le virtù, il suo esistere unico e difendibile, forse occorre star fuori da questa grande confusione che inevitabilmente ci porta questa sovraesposizione costante a immaginari ed esperienze, forse occorre difendere lo spazio di discorso che l’opera genera, dove nasce, dove si forma, dove incontra il mondo.
Se il film può stare dentro una mostra perchè in se stesso si esaurisce, forse l’opera no, l’opera d’arte ha un suo spazio di lettura, godimento, un suo spazio relazionale, che non ci dobbiamo dimenticare.

Apichatpong Weeraesatakhul, uno spirito misterioso.

sulla mostra di Apichatpong Weerasethakul "Primitive" all'Hangar Bicocca di Milano

La Thailandia, tra le prime mete esotiche ed erotiche degli italiani, ormai la conosciamo tutti. Il solo nome evoca un certo paesaggio, certi volti, certe cose da fare, per lo più di svago e di shopping. «Quest’anno vado in Thailandia…torno in Thailandia…ho comprato casa in Thailandia…ho sposato una thailandese»…
Tanto che ormai non ci possono più vedere né ci trattano più con la fascinazione o la curiosità di prima. Abbiamo addirittura perso il ruolo dei “turisti porta soldi”…ora, semmai, il turista italiano è quello che ritorna, sempre nello stesso posto, portando le magliette che non usa più per i ragazzini del posto, facendo regali dall’Occidente un po’ come fosse l’amico dello zio d’America…quando, in realtà, cosa abbiamo a che fare noi con questo popolo? Ben poco. Tranne, appunto, averla scelta come meta di incontro con l’Oriente, con un Oriente che oggi abbiamo non è più così esotico, che abbiamo accanto, ogni giorno, sul bus, al ristornate, nelle vetrine dei negozi, per strada, un Oriente di cui riconosciamo il suono della lingua, l’odore, il modo di vestire e quello di pettinarsi. Chi c’è stato avrà senza dubbio in memoria l’immagine dei ragazzi in ciabatte e calzoncini con il ciuffo di capelli stirati davanti mentre dietro all’insù, gli orecchini e le catenine al collo, i cellulari sempre in mano. Niente di troppo orientale a dire il vero, che tuttavia è distante anni luce da noi, dai nostri comportamenti, abbigliamenti, divertimenti. Un mondo diverso, uno stare diverso, un convivere diverso. Normale, lineare, originario, primitivo. Primitivo come qualcosa da preservare, preservare il luogo come una comunità agricola, dice Apichatpong Weerasethakul.
Apichatpong Weerasethakul è infatti l’artista che ha realizzato Primitive, all’Hangar Bicocca di Milano, un progetto espositivo (in mostra soltanto fino al 28 aprile!) oltre che filmico, nato già nel 2009, che ci porta esattamente lì, che ci fa entrare in quel territorio semi-conosciuto per portarci laddove non siamo stati pur attraversando luoghi e umori ben noti.
L’ho chiamato artista ma forse potevo anche chiamarlo regista, essendosi portato a casa una palma d’oro al Festival di Cannes nel 2010. Ma anche del regista ha ben poco. Nel suo lavoro c’è così tanto di vitale, nel senso che deriva dalla vita, e così poco di artificiale, nel senso che costruisce una finzione, che mi verrebbe quasi da azzardare l’ipotesi che se provasse a rifare un film tale e quale forse non ci riuscirebbe.
Ad ogni modo possiamo chiamarlo “Joe”, per stare sul sicuro, nome con cui si fa chiamare, forse venendo in soccorso anche alla gravosa pronuncia del suo nome…
Primitive nasce prima di tutto da un viaggio, anzi, da un vero e proprio pellegrinaggio che Joe ha compiuto alla ricerca dello zio Boonmee in una regione al Nord della Thailandia. Boonmee non è uno zio vero, o forse sì, comunque è un personaggio di cui Joe viene a conoscenza un giorno grazie a un monaco che lo omaggia di un libro che racconta la sua storia. Si tratta della storia di un “vecchio” (chiunque se lo immaginerebbe vecchio…) che si ricorda le sue vite precedenti, così come recita il titolo del suo film premiato a Cannes che Joe realizza dopo il fatidico incontro (Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives, 2010).
Il progetto multipiattaforma dell’Hangar ci porta subito dentro a questa storia. Seduti, anzi proprio distesi, sui morbidi cuscini porpora che ci accolgono di fronte a Primitive, al buio di una sala a più schermi, sono dei ragazzi thailandesi a parlarcene, o forse no, a sognarne, o, no, magari ad ascoltarne la lettura…in realtà non importa, perchè dentro quel mondo sogno, discorso e ascolto si equivalgono, vero e falso non esistono, spirito e materia si completano. I momenti di sogno si alternano a quelli di veglia e di gioco, mentre la luce giunge solo nel tentativo di mostrare il buio.

Ghosts will appear under certain conditions, when it is not quite light and not quite dark (at the break of dawn and at twilight) da “Cujo” (edizioni Zero, 480 pp, Milano, 2009. volume in mostra)

«Temo sempre che un giorno aprendo gli occhi non vedrò niente»…dice la voce fuori campo…di che parla? Qual è questo timore? È il timore di non vedere più la propria storia o di non vedere più il proprio futuro?

Un connotazione di Primitive è il modo in cui un posto rimane fermo nel tempo e non progredisce…il ricordo brutale che permane. (Joe)

Nabua, il villaggio in cui è ambientato tutto il progetto, è al confine con il Laos e gode di una sua memoria precisa, “brutale”, quella di un ventennio di dominazione fisica e psicologica sulla comunità contadina locale da parte della dittatura militare al governo, finita, se così si può dire, negli anni Ottanta. Ora è la “città vedova”, vedova di uomini, quegli agricoltori costretti a rifugiarsi nella giungla…
Che fine fanno le nostre storie, la nostra storia? Quale memoria rimane? Quali ricordi sono vittime dell’oblio?

Che il futuro sia in quella navicella un po’ metafisica e fantascientifica…? quella caverna, quell’antro, quell’utero? È lì che si depositano le storie, la memoria? Per andare dove…?

…Joe asked me to record anything that I could remember about my past. I found though that we tend to forget so much, even from our present lives, let alone any past ones. (da “Cujo”, cit.)
Siamo nell’agosto del 2551, ma in realtà la mostra inizia ai giorni nostri…
Gli stessi ragazzi infatti li incontriamo già prima, nel video che fa da porta d’accesso, mentre ballano e cantano I’m Still Breathing dei Modern Dog, una band thailandese molto popolare che Joe ha invitato a suonare dal vivo con loro, lì, a Nabua, come probabilmente non sarebbe mai accaduto.
Fa da sfondo quella campagna, quei sentieri, quella luce che probabilmente ognuno di noi sta sognando in questo momento. È il sogno di un futuro? In realtà quello è il tempo presente, quello di ora, quello sospeso, un tempo magari utopistico, che non deve essere per forza high tech ma che riguarda una comunità basata sull’agricoltura (Joe). È il tempo in cui vivono quei teenagers del nord della “terra degli uomini liberi” ancora oggi costretti a fuggire, se non nella giungla vera, in quella delle grandi città o dei grandi paesi come Corea e Singapore (…dice Joe).
Quella canzone parla di quel tempo presente di come bisogna continuare a muoversi e ad essere piuttosto ribelli, ogni giorno nella semplicità e nella libertà di ogni azione.
Il tempo di quella cultura è un’altra cosa, non ha niente a che fare col tempo “occidentale”. Chiunque ci sia stato sa che le giornate sono scandite dal clima e dalle faccende da sistemare più che dal lavoro o dalla famiglia. É il tempo della pioggia che ti coglie all’improvviso, della strada che si trasforma in fango, della semina nelle risaie con i tempi di attesa delle varie fasi di raccolto, è il tempo del sole, della legna da tagliare per edificare, della partita di calcio, del giro in motorino, dei trasporti su ruota, del programma in tv, dei doni ai monaci. Un racconto di vita catturato nei 28 minuti di Making of the Spaceship dove il tempo presente, appunto, è scandito dalla pratica di costruzione di uno strano oggetto, quella stessa navicella in cui i ragazzi custodiranno i loro sogni.
Al centro della sala, questo lavoro, che possiamo forse chiamare documentario (ecco che Apichatpong Weeraesatakhul diventa anche un documentarista…), è il ponte d’accesso a quel mondo dove il lavoro convive senza stridore con l’alchemico. Potresti stare ore a guardarli, a spiarli, ed è da qui che si può partire e ripartire il giro. Da qui puoi tornare a sdraiarti di fronte a Primitive, o immergerti nella finzione di A Letter to Uncle Boonmee, o accompagnarli per una partita di calcio notturna illuminata da un lampione al neon e da una palla di fuoco (Phantoms of Nabua).

A Nabua, dopo esserci vissuto, il fuoco diventa un elemento forte. Si usa per ripulire la terra dopo la mietitura e si racconta di come le case venissero incendiate, come di molte altre cose legate al passato…(Joe)

Nabua brucia. Brucia due, tre volte, brucia ancora. Brucia il telo su cui è proiettata incendiata alla fine della partita di calcio e continua a bruciare in un gioco di lampi perpetuo nello stesso film, che chiude la mostra.

Il video Nabua forza l’idea di fine mostra e di chiusura dello spazio. Il colophon è fuori…è un’idea di arte che esce verso il mondo ma è anche un’idea di circolarità e non chiusura tipica della cinematografia di Apichatpong…La scelta (all’Hangar Bicocca) è stata di impostare un anno di mostre su artisti che manipolassero spazio e tempo, in particolare, nella loro percezione, dando vita ad una sorta di museo del tempo alterato. (Andrea Lissoni, curatore della mostra e dell’Hangar Bicocca)

Tra i suoi riferimenti Apichatpong Weeraesatakhul cita il cinese Edward Yang e l’iraniano Abbas Kiarostami, ma anche Fellini, Cassavetes, Warhol e Kubrick…non dimentichiamo la sua formazione a Chicago a contatto con la cinematografia americana sperimentale degli anni Novanta…dunque aspettiamo di incontrarlo ancora al cinema oltre che al museo.
Tuttavia l’autonomia da una struttura precisa, il gusto di un linguaggio che gira attorno alla storia più che rappresentarla, la necessità di entrare in consonanza con i soggetti che decide di coinvolgere, spingono il suo sguardo oltre ogni chiusura.

Volevo solo catturare la vita filmandola. Non so bene a cosa miravo quando ero lì. Spero ne sia uscito un modo onesto di rappresentare l’esperienza e i sogni degli adolescenti. (Joe)

Prima di vedere la sua foto lo immaginavo un fantasma in volo tra gli alberi di banane, un po’ come come lo spettro che si aggirava nel parco Karlsaue di Kassel a Documenta 13. In realtà non ne è molto distante…con i suoi sarong bianchi e lo spiritello magico canino che non lo abbandona mai, lui e il suo amico…non insegnano così i monaci buddisti?

Marta Dell’Angelo. La lingua non centra…

Marta Dell’Angelo. La lingua non centra…

Mi è capitato di vedere due ciclisti parlare in silenzio.

Arrivavano da lontano, due sagome in controluce, e a un certo punto si son fermati, uno accanto all’altro, con quel tipico gesto di chi appoggia il piede a terra in punta, spostando il bacino un po’ di lato. E hanno iniziato a parlare. Era evidente che stavano parlando perchè si guardavano in faccia gesticolando. Quando li ho attraversati, però, non c’erano parole tra di loro, silenzio. Gomiti, spalle, mani, polsi e ascelle, il collo e la testa, e anche il volto con la bocca, il naso e le sopracciglia, tutti insieme in movimento, dialogavano senza parole. Mi è sembrata una magia, un antidoto alle parole, a quelle in eccesso, a quelle rumorose, a quelle acronimiche, inglesizzanti, alle tag, alle consonanti degli sms…quei due ciclisti avevano una lingua loro, quella di chi non sente, e un po’ li ho invidiati.

Parole, lingua, linguaggio, segni che derivano dalla memoria che ogni giorno si affatica per tenerli insieme. C’è una memoria colta e una primordiale, quella che ci permette di trasmettere e quella che ci permette di comprendere. Che esercizio fa ogni giorno la nostra mente per tener viva la memoria, per mettere tutto in ordine, in relazione, per incasellare tutti i discorsi che leggiamo, sentiamo, facciamo al posto giusto…e quanti ci sembra di perderne per strada, e dunque ci sbrighiamo ad appuntarli, a riascoltarli, a bloccarli in qualche modo. Se poi alla nostra memoria sommiamo quella di chi ci ha preceduto, e anche quei segni esistenti a priori, quelli che alcuni chiamano archetipi, altri idee, altri ancora pre-formazioni, sembra impossibile dargli un ordine. E infatti come si fa a dare un ordine alla memoria, esiste e basta, fa affiorare quel che vuole, rimuove momentaneamente, costruisce, inventa, dimentica per sempre.

Marta Dell’Angelo è un’artista che invece ci prova a dare un ordine alla memoria. Forse per la prima volta nel suo percorso, ha messo in ordine le cose, col desiderio di mostrarcele o di sicuro, di mostrarle, prima di tutto, a se stessa. La sua mostra alla Fondazione Remotti di Camogli diventa così un tuffo nel suo pensiero, un furto del suo sguardo, un pedinamento delle sue ossessioni.

Marta non è un’artista alle prime armi, ha numerose mostre museali alle spalle, ma se il suo lavoro è sempre stato sottile, puntuale, silente, quasi inafferrabile, per la prima volta, ma sempre senza far troppo rumore, ci presenta il conto…: “Caro spettatore, mi permetto ora cortesemente di inviarti il conto della tua (mia) esistenza”, in ordine, in fila per uno, in modo che tu possa valutare con calma.

Ecco allora foto, pagine di giornale, appunti, oggetti, lenti, specchi, specchietti, vetrini, fogli e cartoni, scatole, buste e pezzi di muro, di carta e di storia, rette, cerchi, ovali…un’autobiografia di tutti, una vita fatta a pezzi, pezzetti, strappi, cocci e frammenti, tutto sullo stesso piano.

Tutta la mostra si basa su questa raccolta di appunti. Il movimento è dall’opera allo spettatore secondo un moto quasi matematico, da prima a dopo, dal basso all’alto. Il ritmo è serrato…

E arrivarono gli accesi gli acuti gli adatti gli agili gli aitanti gli andanti gli anomali gli animosi gli anticonformisti gli ardenti gli arditi gli arrischiati gli atipici gli attivi gli attuati gli audaci gli autentici gli autorevoli gli avanzati gli avventati gli avventurosi gli avviatisi gli azzardati i baldanzosi i bendisposti i bizzarri i briosi i cagionati i cosi i compatti i compiuti i considerevoli i coraggiosi i costanti i creativi i curiosi i decisi i destinati i determinati i differenti…(continua)

Con queste parole le donne di Camogli hanno recitano un rosario (E arrivarono…, performance 2003-) e il video che le documenta impasta l’aria delle loro presenze con i gesti di questi appunti, una mano che indica, una che gratta, un corpo in volo, la lista dei desideri, le curve di schiene e sederi, la luce che fa rumore come la pipì di notte. La prima sala della mostra diventa così uno sito archeologico, quasi polveroso, in cui l’artista cataloga con cura tutti i resti di una civiltà senza tempo, in cui ricostruisce un vocabolario che non si serve di parole, ma di gesti, forme, “formule di pathos”, una lingua incolta e irrazionale.

Una prima versione di questo vocabolario era uscita nel 2007 come Manuale della figura umana, un capolavoro d’iconologia nato dal desiderio di Marta di ricapitolare tutti quei segni che aveva lasciato nel tempo su libri, foglietti, scritte e immagini, nel momento in cui si era accorta che tutto il suo sentire era rivolto lì, che tutto parlava di corpo, di corpi.

In mostra questo stesso manuale si svela, diventando trait d’union con l’opera pittorica.

Sì, perchè Marta in fondo è una pittrice, anche se la sua pittura è un pretesto, una scusa, è una pittura semplice senza pretese…vedi – dice – io uso passaggi tonali per la pelle che sono sempre uguali, verde, rosa e luce…la mia è una pittura povera. La pittura di Marta Dell’Angelo diventa infatti corpo scultoreo, e lo si vede bene su, al piano di sopra, salendo dal sito archeologico alla quadreria…Eccoli, è qui che li troviamo, ci sono tutti, tutti i suoi corpi. Per la prima volta in dieci anni Marta li ha fatti uscire di casa tutti insieme, grandi e piccoli, di ogni età. E lì è come se si incontrassero per la prima volta. Sono a loro agio, si stirano, si annusano, si alzano, si siedono, si sdraiano, si accovacciano e pisciano. Stanno aspettando, passano il tempo, in attesa. Nella loro densità classica Il fauno, L’Ermafrodita, La polena, e l’artista stessa, sono i personaggi di un mito che si ambienta oggi e che sta per accadere, anzi, che accade proprio di fronte al visitatore, assieme a lui, ed è con lui che inizia il racconto…I quadri, dal fondo bianco, non offrono appigli, non sono storie, sono immagini estrapolate da chissà dove e chi guarda si trova con loro in un’arringa aperta.

L’artista delega allo spettatore il discorso, che miracolosamente prende vita proprio dal suo sguardo.

Se poi da Camogli ci si sposta di poco, a Genova, per visitare Villa Croce, si trovano le Cariatidi, il fregio di carte con cui l’artista ha coronato lo scalone del museo. Allo stesso modo, anche qui, tutte quelle donne sono fantasmi, privi di tempo e significato, che, al battere del nostro sguardo, iniziano a danzare in un rito pagano che mette in moto la nostra immaginazione. Da un momento di sospensione di memoria e movimento, dalla pausa “non immobile” in cui le incontriamo, nasce subito la storia, una storia che noi riconosciamo perché ci è impressa. Troviamo nonne, sorelle, atlete, divinità, ma anche gambe, braccia e avambracci, ventri gonfi, anche e seni. Tutta la vita del corpo in movimento come fossero personaggi di un affresco di una pittura antica, ma privi di un committente che reclama ordini e menzioni precise. È come se lì potessero entrarci tutte, e aggiungersene, ogni volta, oppure ritrarsi, scomparire, proprio come la nostra memoria tratta le immagini frantumandole e ricomponendole in quadri sempre nuovi.

Se ci si sposta lungo la scala, le migliaia di fogli che compongo il fregio si agitano, s’inarcano e si arrotolano mentre le figure si muovono e prendono corpo gruppi di amiche o di dee, o anche di sagge progenitrici…sono le immagini che prendono vita.

A cosa serve?

Testo di presentazione dell'opera "Urban Jungle" di Iza Rutkowska per il Palazzo della Cultura e della Scienza di Varsavia

A chi lavora con gli artisti, ovvero a chi non è artista ma lavora per difendere l’artista e l’arte, a chi, cioè, si occupa di preservare la gratuità e la non utilità dell’opera e dell’intervento artistico nella globalità di tutti gli interventi che l’uomo impone alla e nella società che si è costruito e in cui vive, a chi dunque si trova a fare da arbitro tra il volere spesso capriccioso dell’artista e il contesto in cui il suo lavoro si cala, a garantire gli accessi, a preparare il terreno, a raccogliere e restituire il valore di opere non sempre per forza azzeccate, a generare occasioni e possibilità per produrre nuove creazioni consistenti o effimere, memorabili o semplicemente in transito, a noi, a quelli che si chiamano curatori, direttori, critici, mediatori, viene spesso il dubbio su cosa serva questo lavoro.

Nel suo saggio Public Space in a Private Time l’artista americano Vito Acconci scrive:

Lo stabilire, in una città, che un certo spazio è “pubblico” significa farsi un promemoria, porre un avviso, sul fatto che il resto della città non lo è. New York non appartiene a noi, né Parigi, né Des Moines. Istituire uno spazio pubblico significa mettere da parte uno spazio pubblico. Lo spazio pubblico è uno spazio nel bel mezzo della città ma isolato dalla città.

(In English: The establishment of certain space in the city as “public” is a reminder, a warning, that the rest of the city isn’t public. New York doesn’t belong to us, and neither does Paris, and neither does Des Moines. Setting up a public space means setting aside a public space. Public space is a place in the middle of the city but isolated from the city.)

L’arte di regime faceva questo. E molti degli abitanti di Varsavia sentiranno in questo modo un monumento storico come il PkiN, ovvero il Palazzo della Cultura e della Scienza regalato alla città da Stalin dopo l’annessione della Polonia al progetto dell’Unione Sovietica di un blocco comunista stabilito col Trattato Varsavia, di ambigua amicizia ma di effettivo dominio.

Un palazzo che ancora brucia perchè simbolo di una storia recente, come in Italia poteva bruciare il complesso dell’EUR, dopo la guerra, e come non brucia più un monumento come San Pietro, simbolo dell’imponenza e del dominio della chiesa cattolica sul nostro paese, sulla sua storia e soprattutto sulla sua cultura. Oggi ne rimane il pregio artistico e l’unicità di un patrimonio.

È il tempo che traduce l’evento nella sua immagine, la storia in mito.

La storia passa, gli edifici restano.

Si tratta di edifici che altro non sono che immense opere di quella che oggi si chiama “arte pubblica” e non più arte di regime. L’arte pubblica nasce infatti come arte commissionata, pagata e voluta dall’istituzione per valorizzare il proprio territorio, mandare certi messaggi, istituire e improntare una certa estetica. Nasce come arte non libera, nel senso che l’artista operava più o meno consapevolmente entro i limiti del consenso.

Nel tempo le cose sono cambiate. Gli artisti si sono presi, anche illegalmente, i propri spazi di libertà dove incontrare e dialogare con un proprio pubblico. I privati, facoltosi, sempre di più si sono intrufolati nelle scelte che dovevano essere dell’amministrazione pubblica. Fino a creare un disfacimento ormai evidente dei confini tra le due sfere. Lo spazio “pubblico” oggi, pensiamo ad una piazza, è ormai contaminato da immagini, immaginari, informazioni, inviti, edifici e spazi virtuali, di provenienze e intenti disparati. Ed è soprattutto la fruizione che è cambiata, l’attraversamento, i mezzi con cui farlo, lo sguardo, reale e virtuale, il raggio visivo che si amplia e si restringe continuamente, le relazioni molteplici, mute e a gruppi o dialogiche e mirate. Teorizzando questo cambiamento dei luoghi “pubblici” laddove l’intervento artistico deve mettersi a confronto con una precisa “specificità del luogo” lo storico dell’arte James Meyer, nel suo Functional Site all’inizio degli anni Duemila, li definiva “siti” allegorici (non a caso attinge al paradigma informatico) dove, accanto allo spazio fisico, si stratificano altri spazi, astratti, virtuali, si insinuano informazioni, testi e immagini, che mettono in moto una lettura multipla e complessa che necessita della conoscenza di molti diversi linguaggi.

Urban Jungle di Iza Rutkowska è un’opera d’arte pubblica a tutti gli effetti. Commissionata dalla città, in collaborazione con la Fundacja Form i Kształtów (fondata dall’artista quattro anni fa per proprio per realizzare progetti d’arte pubblica in dialogo con altre realtà cittadine e non solo), per un palazzo storicamente connotato, decisamente visibile da chiunque passi di lì, dunque in dialogo con la sfera pubblica a livello sia urbanistico che sociale. Di dimensioni degne, anzi, maestose.

Chiunque passerà di lì, chiunque ne vedrà delle foto, chiunque ne leggerà su facebook, assisterà ad una messa in scena. La città col suo palazzo storico e gli edifici attorno, gli alberi, i viali, fungeranno da scenografia di un fatto che è in atto. È la presenza di quel serpentone, come di una gazza su un comignolo, o di un palloncino incastrato in un cancello a far accadere qualcosa. Basta un gesto, un piccolo spostamento a fare la scena, a dar vita ad un quadro che prima ci appariva statico ma che subito può mettersi in moto e raccontarci una storia.

La storia non è detta, non è scritta, non ne abbiamo certezza, non sappiamo cosa ci vuole esattamente dire, ma è lì, si impone, ci chiede attenzione, sposta il nostro sguardo, ci regala una vista sull’edificio del tutto inedita. Ora, il serpente è certamente un animale simbolico, e la sua forma, per come ce la presenta l’artista è giocosa, strabiliante, strizza l’occhio a grandi e piccoli, ma che ne sappiamo di più? La storia rimane privata, ma al tempo stesso entra in dialogo con la comunità che assiste. Lo spazio privato, la creazione, la scelta e la visione dell’artista entra violentemente nel raggio visivo pubblicamente accessibile. Dallo spazio protetto del museo o della galleria e dal suo pubblico preparato, l’artista si dirige verso uno spazio in cui l’opera non gli appartiene più e diventa visione collettiva. Tuttavia ancora le appartiene, è la sua storia che le appartiene, l’origine da cui l’opera nasce. È l’opera il terreno comune su cui accade l’incontro, su cui nasce il dialogo, su cui gli sguardi si incrociano, non la sua storia. E l’opera è a metà strada, tra chi la fa e chi la vede. È quel ponte sotto cui passano flussi e correnti di entrambi.

Ecco, se esiste una replica alla domanda di partenza forse consiste in questo: interrompere uno sguardo sicuro, interrompere certezze, linearità di vedute e paesaggi, l’andamento regolare di un tempo, la ricerca ossessiva di risposte.

A differenza del passato quando si ergevano monumenti per assicurarsi consenso, oggi l’arte continua sì a preservare lo stupore e la meraviglia, ma genera prima di tutto il dubbio.

A chi si trova dunque a difendere il dubbio, alle stesse persone di cui sopra, ai curatori, direttori, critici, mediatori, che si trovano a lavorare tra l’opera e il suo pubblico viene spesso posta la stessa domanda: a cosa serve?

…Possibile che non ci sia niente in vendita? Che non sia la pubblicità di un evento, di una manifestazione, di un incontro politico? Possibile che non abbia un seguito, che non ci insegni o ci voglia comunicare qualcosa? Che non ci siano regole che ci dicano come giocare, guardare, muoverci, spenderci un po’ di tempo libero? Possibile che non me la possa portare a casa? Possibile che non la possa comprare? Possibile che non serva propria a niente?

Ma perchè l’ha fatta?

Ecco. È questa domanda che dobbiamo difendere, dobbiamo difendere l’impossibilità di darle una risposta, difenderla dalla necessità di una giustificazione, far sì che continui a non servire a niente. Difendere questo piccolo spazio di libertà.

MarkusHofer. La follia dello sguardo.

testo in catalogo per la mostra “Space Invasion” al Volkskunde Museum di Vienna

Un vaso annoiato può arrivare a darti l’ora dell’ennesimo giorno che trascorre per strada a portare piante, come il ricciolo ribelle di un’inferriata a fuggire letteralmente da sotto i tuoi occhi per saltare nella finestra accanto. La realtà che ci circonda offre molte più possibilità di quelle che siamo abituati a prendere in considerazione. La realtà visibile, le cose, gli oggetti, le persone, le situazioni, contengono in sé un microcosmo che va oltre il loro apparire funzionale o relazionale nel macrocosmo. Essa contiene tutto ciò che ci serve, che serve alla vita pratica ma anche a quella contemplativa, di cui è incondizionatamente e ineluttabilmente punto di partenza. L’arte riesce a rendere vere e tangibili le possibilità di realtà che vanno oltre il visibile realizzando una visione, uno sguardo, un pensiero. Markus Hofer opera proprio in questo senso. Il suo sguardo sulle cose ne muta la forma e il senso originari in qualcosa di nuovo, che tuttavia non perde il legame con il reale da cui deriva. Molto concreti anche nel loro sempre ricercato aspetto estetico, i suoi interventi nei luoghi partono proprio da caratteristiche già appartenenti alla realtà che li circondano. Essa viene potenziata, sottolineata, moltiplicata, nei suoi significati. La realtà esistente diventa punto di partenza non da citare, bensì da disarticolare, da scardinare nelle sue certezze, alla ricerca di nuove risposte a ciò che ci circonda. Azioni, oggetti, forme e colori generano orizzonti di possibilità. Inseriti all’interno di un contesto che ha già una sua strutturazione e composizione indipendente, che è già immagine autonoma nella realtà, formata da macchie, forme, linee e colori, gli oggetti che Markus Hofer produce cominciano ad esistere al di là della loro originaria funzione generando un “rituale […] assurdo dal punto di vista della vita, ma capace di attirare l’oggetto nella sfera dell’arte”1. Ogni oggetto, il più banale, svela un’essenza inattesa se estrapolato dal suo aspetto utilitario, se liberato dalla sua struttura funzionale, per essere messo al servizio dell’arte, per essere collocato all’interno dello spazio illusorio dell’immagine. Gli interventi di Markus Hofer diventano così fortemente narrativi, generano immagini che diventano incipit di racconti che ognuno di noi può fare propri. Ogni intervento, collocato in un certo contesto da cui non può mai prescindere, fa succedere qualcosa. Ogni intervento interrompe il tempo che stiamo vivendo per creare un altro livello di percezione. Ogni intervento si inserisce nelle consistenza della realtà per diventare surrealtà tangibile. Hofer ci offre il suo sguardo cognitivo su una realtà che va scoprendo: che cosa scorrerà nei tubi, quale vita si svolgerà dentro lo Studio di Markus Hofer in una casa bolognese? In questo senso gli interventi site specific di Markus Hofer si relazionano alla realtà e alla sua complessità, in modo trasversale, non diretto, per mezzo dell’illusione. Attraverso il suo punto di vista, gli interventi dell’artista non dichiarano, né documentano stati di fatto, bensì intaccano il nostro immaginario quotidiano in modo controllato, sorvegliato, mai in modo puramente spettacolare. Il caso, “la fede nel miracolo possibile” del teatro di Alfred Jarry è sempre partecipe delle sue azioni. Le azioni di Hofer in questo senso rimandano proprio alla pratica del teatro dell’assurdo; una pratica che persegue il valore della realtà, che annulla il palco, la distanza dal pubblico per entrare come azione nella vita reale; una pratica che si propone di rispondere al bisogno di credere in ciò che si vede, di essere cosciente di essere partecipe non di una rappresentazione bensì di un “avvenimento” della proprio stessa esistenza. Invitato a Bologna per il programma di residenza di Nosadella.due, l’artista ha dato vita ad un dialogo con le circostanze della città e i materiali che metteva a disposizione. Giunto volontariamente in città senza alcuno strumento, ogni necessità è stata esaudita in sito, attraverso la ricerca personale, la richiesta alle persone conosciute, l’adeguamento alle possibilità offerte. Gli Interventi Bolognesi hanno così preso vita come esito del suo sguardo e della sua sempre acuta immaginazione rispetto al contesto in cui andava operando, diventando interruzioni di percorso per i cittadini, che se ne riconoscevano a un primo livello la stravaganza rispetto al quotidiano, non arrivavano a comprenderne l’origine. Questo era reso possibile anche grazie all’elegante discrezione con cui tutti gli interventi si distribuivano in città, all’intelligenza con cui il più banale materiale cittadino era stato trasformato in materia per l’immaginazione, ad un abusivismo degli spazi pubblici tradotto in chiave di arricchimento, senza alcun danno, ma anzi attraverso la generosità di una concessione totale ai cittadini. Nessun intervento di Hofer reca danno alle strutture con cui dialoga, nessun intervento è invasivo o permanente, ma come un’immagine fantastica viene lasciato al corso del suo tempo, che man mano lo trasforma o lo cancella. Le sue tracce nei luoghi sono sempre minimali proprio perché richiedono attenzione e non vogliono alterare uno stato di percezione, bensì inserirsi come elementi disturbanti, quesiti, talvolta ironici, sulla vita e le sue forme. Le persone stesse entrano, d’altra parte, nel suo lavoro. Ciò che ogni persona in sito può offrirgli diventa materiale di ricerca, di arricchimento, di scoperta. Lo stupore che ogni suo lavoro si propone di generare è prima di tutto il suo stupore e quello dello sguardo degli altri. Il pubblico non può rimanere distante, perché ciò che Hofer intacca è ciò che al pubblico appartiene. L’artista chiede al suo pubblico una profonda adesione e una stretta complicità nel lasciarsi guidare a mettere in discussione i suoi sensi, la sua esperienza, le sue convinzioni, ad opporsi ad ogni elemento che conduca alla stabilizzazione di una superficiale conoscenza. In questo senso il lavoro di Hofer è audace fino all’arroganza, scava in profondità e richiede sempre partecipazione. Al tempo stesso la grande dote che lo caratterizza è quella della “leggerezza”, la capacità di lavorare e realizzare progetti “leggeri”, in cui non viene mai meno lo humor ma che riescono ad essere tali anche nella stessa realizzazione. La grande versatilità che caratterizza la produzione dei suoi interventi nei luoghi, traduce e racconta una condizione attuale di mobilità: mobilità fisica, ma anche necessità di adeguamento a differenti contesti. Una mobilità che è attributo dell’era attuale e che ha imposto anche all’espressione artistica la necessità di leggerezza, l’abilità di adeguarsi alle situazioni, di adattare la propria pratica alle circostanze. Lavorare con poco, con quello che si ha a disposizione, ma anche con quello che di volta in volta si trova nei vari contesti lasciando a buona parte del lavoro una certa flessibilità, è diventato un requisito imprescindibile per il lavoro artistico oggi. Il materiale passa dunque in secondo piano, spesso difficile da reperire o soggetto ad esigenze sempre più specifiche, mentre la creatività riprende il suo posto da protagonista. L’opera, pur nella sua autarchia, deve trovare posto nella complessità che la circonda, deve entrare a contatto con la pluralità d’identità del mondo, non precipitarvi come un ufo dallo spazio. Markus Hofer eccelle proprio in questo. Nel trasformare l’opera in processo cognitivo della realtà a partire da quella che ci è più vicina. E riesce a farlo con poco, e tramite un approccio peculiare come l’ironia, che ha adottato, ancora al pari della pratica teatrale, anche come manifesto di vita, per trasformare in comicità le tragedie dell’esistenza.